I tre minuti che separano dalla sveglia
Io non penso che la giornata annoveri un momento migliore dei tre minuti che precedono la sveglia. La luce filtra tra le tapparelle, l’asfalto ancor fresco è accarezzato dai primi pneumatici, una zanzara ubriaca mi sdegna manco fossi una birra media alle cinque del mattino. La sveglia appuntata come un cecchino sui minareti di Sarajevo mira dritto alle mie coronarie. Tra noi c’è un tacito accordo. Lei mi ucciderà, ma non ora. Tre minuti e mi ucciderà. Ora no.
Io so cosa sta per succedere. Non ho ancora certezza se il mondo nel quale pascolavo fino a pochi secondi addietro è reale oppure, come a poco a poco inizio a supporre, una boiata, un Matrix di serie C, una cagata da non scomodare nemmeno lo stalliere di Freund. Io so che tra poco una luce artificiale si rifletterà sull’armadio dinnanzi a me e le trombe del giudizio faranno vibrare i vetri della stanza e so pure che la statuina della Madonna del Tour de France che mia nonna mi portò da un pellegrinaggio sui Pirenei si sentirà chiamata in causa e in tal guisa risponderà ai miei primi vagiti mattutini: quella sarà tua mamma, cafone di merda.
Io lo so.
E poco m’importa. Perché quei tre minuti che precedono la sveglia sono l’unico momento di pace che mi so concedere.
In Pianura Padana l’aria al mattino non è fresca per un cazzo. Non è mai fresca in estate l’aria in Pianura Padana. Uno scooter rallenta in prossimità della mia finestra e io indovino il gatto del vicino in una delle sue fottutissime finte di zampa alla Mané Garrincha. La padrona lo chiama Nilo. Io lo chiamo Garrincha, appunto, perché fotte tutti fingendo di attraversare la strada. Quelli in strada, invece, lo chiamano gatto di merda. Nessuno escluso. L’aria non è mai fresca in Pianura Padana, ma per tre minuti al giorno io non me ne accorgo. Di che colore è il gatto della vicina? Blu di Prussia. Non è vero. Sull’armadio c’è scritto Forza Prussia, però.
Al secondo dei tre minuti porto una mano al collo. Mi pareva, infatti. Seguo con l’indice una clavicola fino allo sterno, poi risalgo su per l’altra clavicola. Due fiumi perfettamente simmetrici discendono dal mio corpo e fertilizzano il costato. Tigri e Eufrate. In Mesopotamia stavano tre popolazioni: i Babilonesi, che erano ricchi sfondati e c’avevano dei gran giardini con meravigliose fontane e super troioni che ci sguazzavano dentro e facevano crepare d’invidia gli israeliti; gli Assiri, che avevano nomi così lunghi e assurdi che non facevano in tempo a impararli che già erano morti sfracellandosi ai centoventi su una biga; i Sumeri, che erano intelligenti e avevano un gigante figo di nome Gilgamesh, ma alla fine lo pigliavano sempre in culo dai vicini arroganti e bastardi. Cerco le tre popolazioni sul mio costato. Trovo la ruota di Ur. La prima ruota della storia. Che però è un neo e forse dovrei farlo vedere al medico, qualcuno mi ha detto.
Quella di sopra lavora in ufficio, credo. Mentre io vivo i tre minuti più felici della mia giornata lei già scorrazza per la casa con i tacchi ai piedi. Ha i tacchi neri e lo smalto rosso. Posso vedere attraverso intonaco e putrelle. Una volta una commessa mi ha venduto un paio di pantaloni corti. Facevano cagare. Dalli alla Caritas, ho detto a mia madre qualche anno dopo. Non li hai mai messi ed è un peccato, mi fa lei. Peccato un cazzo, è una buona azione, roba da purgatorio almeno. Un paio di tornanti del Tourmalet li salto sicuro. E perché li hai comprati se non li hai mai messi coglione?
La commessa, i tacchi neri, lo smalto rosso. Il reggiseno intelligente, pure. Quaranta euro. Un bambino povero che maledice il ricco bastardo con i gusti di merda. Un cammello che si incastra nella cruna dell’ago.
Ogni madre dovrebbe avere un figlio così. Appena mi alzerò in piedi ascolterò Fire in Cairo dei Cure.
Non ho pressione sanguigna nelle gambe, ma tanta nell’inguine. Sprecare quella Woodstock di globuli rossi, bianchi e testosterone è un vero peccato. Le fonderie di Piombino sono un portento viste da lontano. Ricordo di essere arrivato di notte e aver scorto il vapore delle ciminiere in lontananza. Ci si faceva il meglio acciaio d’Italia. Pure a Terni penso lo facessero buono. Pure tra le mie gambe non è niente male. Andrebbe conservato così, sempre. E invece la sveglia lo renderà una lega irrimediabilmente più duttile. E poi mi scapperà da pisciare e poi la tavoletta e gli infiniti rivoli. Mancano pochi secondi. Devo pensare a qualcuna. Senza fare niente, ci mancherebbe. Giusto per non sprecare l’acciaio. Quello buono. Prodotto di altoforno, ingegneria lunigianese trapiantata in Emilia. Cerco una sagoma tra le mille desiderate. Va bene tutto, anche le donne altrui. Non la trovo. Ci sono quelle avute. Numero inferiore, certo, ma non ti tradiscono mai.
L’inferno.
Me lo aspettavo, lo so, eppure il cuore è trafitto. La sveglia urla. La voglio cambiare. Voglio una sveglia gloriosa. Voglio che quell’aggeggio infernale mi svegli così: “Tu-tu-tum! Tu-tu-tum! Parla Londra, trasmettiamo alcuni messaggi speciali: Felice non è felice! La pioggia è cessata! La mia barba è bionda!” Allora si che imbraccerei il mio parabellum con orgoglio e correrei fuori dal balcone a gridare “beccatevi questo nazisti di merda!”
La realtà è complicata. La giornata è complicata. Il cuore deve pompare sangue un po’ dappertutto e il cervello non può rielaborare a cazzo ricordi pescati qua e là a casaccio. Tutto questo rende la vita estremamente difficile.
Tutt’a un tratto i suoni si riempiono d’acredine, i contorni divengono vistosi come nella Venere del Botticelli.
Una mano alla fronte non ti riporterà indietro. Indietro non si torna, mai.
Ascolterò Guns of Brixton. Nella versione dei Novelle Vague. Il tempo di trovare il senso del tutto e la ascolterò.