Corto Siciliano
Non so per quale strana ragione il sangue lagunare di mio padre, lo stesso sangue che scorre nelle mie vene, in questi ultimi due o tre giorni abbia deciso di ruggire dentro di me.
In realtà forse più che di un ruggito si è trattato di un cinguettio. Comunque sia, qualcosa di strano è accaduto. Sono stato colpito dal suono di un richiamo che ha mescolato l’eco di un furore travolgente a quello di una dolcezza infinita.
A dieci anni mio padre aveva deciso che avrebbe fatto il capitano. Si era iscritto alla scuola dei marinaretti, avrebbe studiato le tecniche e le arti nautiche e atteso il momento di imbarcarsi. Mia nonna si oppose con molta forza e i viaggi di papà si ridussero alle traversate a nuoto della laguna, direzione Mothya.
Sento che il desiderio di diventare capitano e affrontare il mare è tornato a ribollire nel mio sangue pazzo.
Il richiamo del mare, del sale e delle onde è così profondo che mi sorprende mentre ancora sono circondato da verdi paesaggi alpini. Sarà per il fatto che tra qualche ora rifarò per l’ennesima volta da nord a sud il mio annuale viaggio di Ulisse. Sarà che non sono mai veramente diventato capitano di nulla. Sarà perchè ho sempre sperato di assomigliare a Corto Maltese e, da ragazzo, mi ero lasciato fregare da Salgari e Hemingway, sarà per tutto questo insieme, ma stavolta ho deciso di spacciarmi per uno che la sa lunga su quelle cose lì che fanno di un uomo un vecchio lupo di mare.
Noi, filibustieri incalliti, conosciamo a fondo cosa significhi Itaca, cosa ci sia dietro Zacinto, cosa voglia dire oltrepassare le colonne d’Ercole. Lo sappiamo bene, ma ci imbarchiamo comunque. Sappiamo che Moby Dick è dentro di noi, prima che negli abissi dell’Oceano. Abbiamo sentore che Utopia o Atlantide o la Città del Sole, a un certo punto, emergeranno dalla linea dell’orizzonte per venirci incontro e sprofonderanno ancora una volta di fronte ai nostri occhi, prima che anche solo uno sguardo sia riuscito a cogliere veramente il senso di quelle visioni meravigliose. Noi conosciamo anche il rovescio di questa medaglia. Sappiamo come è possibile che il mare diventi casa. Comprendiamo fino alle radici l’urlo dei militi di Senofonte. Mare! Mare! – urlano i reduci di quella catastrofe, appena vedono aprirsi davanti a loro la distesa luccicante delle acque marine. Hanno viaggiato per mesi tra precipizi e deserti, hanno sempre temuto durante la ritirata di non giungere sani e salvi a rivedere le loro case. Sono saliti sulle montagne, si sono spinti all’interno del territorio incontro al nemico e adesso, tornando indietro, fuggono in ritirata verso la costa. Desiderano riprendere il mare e puntare decisi verso le frastagliate insenature dell’Ellade. Quelle grida sono come l’urlo capovolto di chi avvista terra dopo aver attraversato l’Oceano. Sono l’urlo di chi ha trovato approdo. Approdare nel bel mezzo del mare è ribaltare l’orizzonte.
Noi ci siamo spinti in alto, abbiamo percorso chilometri cercando di penetrare in territori ostili, la nostra migliore lotta è segnata da questo duplice tentativo: aspirare ad altezze rarefatte e penetrare in profondità. Siamo spesso sconfitti. Siamo spesso incapaci dell’impresa. Le nostre incursioni si risolvono spesso in fallimenti. Desideriamo con tutto il nostro cuore un ritorno veloce, abbiamo bisogno del tetto di casa. Riprendiamo allora la strada del mare senza altro desiderio che questo perchè il mare, a questo punto, è àncora, è approdo: il mare è diventato il nostro porto.
In questi ultimi giorni scorrono davanti ai banchi della Commissione d’Esame tanti volti di ragazzi che conosco ormai da tre anni. Ciascuno di loro ha, per ragioni diverse, qualcosa da chiedere a se stesso.
Li vedo imbarazzati, tesi, grintosi, remissivi, ispirati, delusi, arrabbiati, speranzosi, impacciati e forti. Li vedo adolescenti. Li vedo bruciare di adolescenza. Uno dopo l’altro sfilano davanti ai miei occhi, sostengono con eroismo il fuoco di fila delle domande del nemico, qualcuno cade ferito, qualcuno si salva con abili mosse da partigiano, tutti conquistano i miei ultimi sguardi da professore. Alzatisi da quella sedia, usciti da questa aula, percorsi i lunghi corridoi che li separano dal cancello di ingresso potranno finalmente raggiungere il loro mare.
Sciameranno in ordine sparso alla ricerca di cento Utopie, di mille Atlantidi. Navigherà qualcuno come surfando leggero sull’onda, in superficie, altri avranno il coraggio di spingersi in profondità. Tutti respireranno l’ebbrezza del vento e del sale sulla pelle, nelle narici, tra i capelli. Avranno paura del mare aperto, qualcuno avrà il coraggio di naufragare.
Ed io spero di viaggiare con loro il più a lungo possibile, pur lasciandoli andare.
Spero di rimanere, come un granello di sale ostinato, aggrappato all’altezza del loro zigomo destro, appena sotto la linea degli occhi. Luminoso alla luce del sole e quasi invisibile. Mi piacerebbe prendere parte così alle mille direzioni dei loro viaggi. Mi piacerebbe essere lì, a due centimetri dalle loro pupille, per osservare insieme tutto quello che il mondo offrirà al loro sguardo. Non credo sia mai stato desiderato un desiderio come questo: vivere mille vite in simultanea da granello di sale. Ma so che in qualche modo sarà così.
Un giorno, ragazzi, ci rivedremo in Laguna. Nuoteremo un po’ tra Mothya e l’Isola di Santa Maria. Voi mi racconterete i vostri viaggi ed io crederò sul serio di esserci stato.