You are here (per non perdere la strada di casa)
You are here
Usted està aquì
Voi siete qui
C’è sempre qualche mappa a ricordarmi qual è il mio posto al mondo.
Io ringrazio chiunque abbia inventato questa idea dei riferimenti spaziali, necessari a chi come me manca completamente di orientamento.
Sono anche laureata in architettura, me ne vergogno un po’ in questa confessione. Circa cento materie cartografiche e planimetriche non hanno corretto questo mio difetto di fabbrica.
Un elemento di default bizzarro che mi ritrovo è che invece riesco a ricordare ognuna delle dieci e passa case dove ho vissuto nella mia vita, a livelli di dettaglio impressionante.
Mi sono ritrovata diverse volte ad abbozzare la planimetria di quella casa nei lunghissimi pomeriggi di lezione all’università.
Una di queste case è quella dove sono nata. Vuole la leggenda che il primo giorno in cui sono arrivata dall’ospedale ci sia stato un terremoto piuttosto forte a Bogotà. Mio padre è scappato con me in braccio mentre mia mamma ci inseguiva malmenata dai precedenti oneri partoriali, trascinata e messa a sedere sotto un lampione da un’infermiera poco previdente.
Ho sempre attribuito a quell’incidente il mio carattere nervoso.
Mi sono ritrovata diverse volte ad abbozzare la planimetria di quella casa nei lunghissimi pomeriggi di lezione all’università. Era una casa a schiera di due piani, costruita insieme ad altre altre cinque dimore organizzate in due file di tre, poste una di fronte all’altra. Si trovavano dentro al residence della Calleja, accanto alla scuola delle suore dove si andava a messa le domeniche e a scroccare per una bella mezz’ora il parco giochi poco prima di pranzo. Aveva due balconi, un terrazzo e un giardino piuttosto grande recintato da un muretto basso. In cinque delle sei case abitavano famiglie con bambini più o meno della stessa età mia e di mia sorella ed erano Beto, Veronica, David, Esteban, Natalia, Pablo e Anita. Nella sesta casa abitava una padre con due figli già grandi e un cane enorme. Se i miei calcoli non sbagliano, quei due giovani avranno scelto di non avere a che fare niente con bambini per tutta la loro vita.
Quella casa mi torna spesso in sogno.
Ho notato da poco un fenomeno interessante: se sogno di stare in una casa casa, io sto in quella casa della Calleja; se sogno l’invasione di una casa è il cancelletto bianco del patio de ropas che dava verso il giardino quello che vado a chiudere velocemente, mentre gli invasori dei miei sogni scavalcano il muretto basso proprio lì.
Sarebbe ideale che un’altra mente brillante inventasse una carta esistenziale, con un bel punto giallo e con scritto you are here, per poter capire certe storie.
Perché? Perché una gitana come me che ha cambiato diverse città e paesi e case e che si sente abbastanza a suo agio anche in questo nomadismo ritorna sempre a quel nido nelle notti inquiete?
Ci ho pensato diverse volte in questi ultimi tempi, soprattutto vedendo i post dei vari colleghi e amici emigrati in giro per il mondo, ascoltando la mia famiglia che ha vissuto da generazioni in questo modo, serenamente, viaggiando e cambiando amicizie e scenografie e che riportano spesso il tema del viaggio nei nostri ricordi e nelle nostre chiacchiere.
Sarebbe brillante l’invenzione di una mappa esistenziale, una specie di planisfero enorme con un bel punto giallo con su scritto, you are here. Ci darebbe una mano grande nel cercare di capire certe nostre storie; come un aiuto per sbagliare di meno nella vita, della serie, senti da questo punto arrivi lì oppure in quell’altro posto a seconda delle scelte che farai vai tranquillo sai cosa ti aspetta, scegli bene. Dov’è casa tua non te lo puoi dimenticare perché ha una zona tratteggiata con un colore verde e con un cuore bello grande, in mostra.
E avendo queste sicurezze magari ci muoveremmo più tranquilli, potremmo correggere il tiro, rivedere le scelte, ricordare quel posto dove non vogliamo più tornare oppure quell’altro dove siamo stati molto felici.
Quella casa dei miei sogni l’ho nominata la mia mappa esistenziale. Una mappa nel subconscio che riassume dove sono. Dove andrò non me lo dice, ma alla fine non saprei se voglio tutte quelle informazioni. Mi dice, hey tu! Qua sei a casa, oppure, forse in questo posto non ti trovi tanto bene, datti una mossa! Mi aiuta a superare le mie continue nostalgie e quella sensazione di sradicamento che mi porto da quando me ne sono andata dal paese dove sono nata.
Fare pace con il posto dove ci troviamo mi fa pensare al protagonista del romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila.
Sono una quando segretamente sento le farfalle allo stomaco mentre l’aereo inizia a fare le manovre di atterraggio e vedo il mare così vicino e blu e quell’isola, che per tanto tempo mi ha accolta anche se non ci sono nata, si distende di fronte ai miei occhi in quel modo così affascinante. Anche se poi a terra inizio la mia ramanzina interiore facendo partire il mio solito rapporto conflittuale con la Sicilia.
Sono nessuno quando il mio pragmatismo andino mi chiede forza e disciplina. Non bisogna piangere per le proprie radici, il terreno da dove sono sbocciate è lì saldo ad aspettare prima o poi il ritorno.
Sono anche i centomila che vivono i propri trent’anni con una dolce sinfonia nostalgica di sottofondo. Perché la propria vita a questo punto spesso se la erano immaginata in un altro posto e a fare probabilmente altre cose. Non così lontani dal posto che chiamavano casa. E vagano per il mondo osservando tramonti e nuvole, tra un aereo e un altro, pianificando sempre con un trolley mezzo pieno in quella stanza che non diventa mai la loro dimora al cento per cento. Si spostano cercando di sentirsi completi ma non riescono a non pensare al ritorno a casa. Così lei torna a tormentarli in sogno, per ricordargli che prima o poi da qualche parte dovranno fermarsi.
“Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.”
(Uno, nessuno e centomila – Luigi Pirandello)
(Foto da web)