Gli occhiali – storie di ordinariato
Hai visto la faccia della signora Carla?
Sì, rispose mia madre tra un appretto e l’altro.
Dici che la picchia?
Se lo fa, lo fa male.
Troppi lividi.
Lei però non fiata. Non si sente nulla e qui le mura sono di carta velina.
La signora Carla quel mattino zoppicava sotto il peso delle sporte, dalle quali traboccavano in ordine sparso: un cespo di lattuga riccia, due porri (carucci a onore del vero), sua figlia così aveva ordinato e lei era abituata ad eseguire, un ciuffo di sedano e arance Washington. Aveva poggiato le sporte sulla griglia su cui insisteva una cacca di cane e con un fazzoletto bianco aveva ripulito gli occhiali.
Mentre saliva le scale del sovrappasso, un’arancia era rotolata per terra. Si era fermata, ne aveva approfittato per riprendere fiato, l’ascensore era spesso fuori servizio, e si era chiesta se questo non fosse un metodo per far fuori gli anziani del quartiere. Troppi. Alle sue spalle un extracomunitario con la bici arrancava, meglio che se fosse stato un equilibrista aveva raccolto l’arancia. Lo aveva ringraziato con lo sguardo da dietro i vetri degli occhiali appannati e gli aveva ceduto strada facendosi più piccola che poteva a ridosso del pianerottolo.
Doveva ricordarsi di passare dall’ottico, le erano costati una cifra, e quella nebbiolina densa che si formava sulle lenti le aveva causato diversi guai nelle ultime settimane.
Non aveva visto per esempio la porta socchiusa della camera da letto e aveva beccato un colpo di stipite sulla fronte, aveva rimediato un bernoccolo che adesso virava dal blu al giallastro e per poco non aveva rotto le lenti. Era stato improvviso, si era ritrovata a brancolare, non aveva nemmeno potuto mettere le mani avanti.
Il marito aveva sentito un grido soffocato dalla cucina, dove stravaccato davanti la tv, si nutriva di dolore, gossip e wurstel, la più allampata delle conduttrici decerebrate recitava dispiaceri e falsità, e lui la guardava a bocca aperta, con la poltiglia masticata e inzuppata di salsa rosa in bella vista.
Che fai vecchia carampana? E giù un rutto e una risata.
Lei s’era messa una scatola di piselli primavera sulla fronte, minimizzando l’incidente, si era seduta un momento, questo sì, aveva pulito gli occhiali, li aveva inforcati, ma quando aveva guardato quell’essere in cui si era trasformato l’uomo sposato trent’anni prima, la vista le si era offuscata ancora, forse il colpo era stato più forte del previsto. Se li era tolti, si era stropicciata gli occhi con le dita fredde.
Attribuiva questo fenomeno alla temperatura dell’abitazione, il marito diceva di avere sempre freddo e tenevano i termosifoni a manetta.
La casa era un forno, si bruciava là dentro e la menopausa non la aiutava.
-Che caldo oggi.
-E questo ferro da stiro sempre in attività!
-Apri la finestra, oppure stiri tu.
Ho aperto la finestra ingoiando il mio repertorio di parolacce pre- pranzo e ho visto la signora Carla.
Sembrava leggermente claudicante, ma forse era soltanto il peso della spesa, povera donna, un marito pensionato parassita e una figlia cui interessava soltanto fare la manicure, e sfoggiare artigli da tigre del bengala.
Il livido sulla fronte era meno visibile, ma fin da quassù potevo vedere la fasciatura sotto il ginocchio e l’ematoma sulla guancia destra che si allargava, una pozza di inchiostro.
-La picchia, avevo deciso.
-Ma chi quello che non si alza a momenti neppure per pisciare?
-Questa storia non mi convince, disse mia madre che si era come solito materializzata dietro la mia spalla destra e sbirciava verso la strada.
-La signora Carla è una donna dignitosa non lo direbbe mai.
-Non ci si guadagna in dignità facendosi picchiare.
-Le bestie devono star fuori di casa, dormire oltre la soglia.
-Non avevamo né cani, né uomini in casa.
La signora Carla adesso aspettava l’ascensore che nel condominio era sempre occupato perché le conversazioni bisognava farle con la porta aperta che casomai te lo rubano gli altri.
-Un minuto e che sarà mai, e poi giù un colpo di porte sbattute con forza.
Il portiere l’aveva salutata insinuandosi con lo sguardo sotto il suo bernoccolo e compatendola a monosillabi intraducibili.
Le si era annebbiata ancora la vista, il portiere era una massa scura in divisa, perché lui si ostinava a metterla, la divisa, come se fosse il concierge di un grande albergo.
A tentoni aprì la porta della cabina e si rifugiò in quello stanzino volante, sudata e stanca.
Nuovamente la vista era tornata, aveva aperto la porta e la calura dell’appartamento l’aveva investita assieme all’odore di solvente.
Il marito si era addormentato davanti la tv, il piatto a terra, una striscia di salsa bava sul mento.
Dopo aver sistemato la roba, avrebbe telefonato al medico, non erano gli occhiali, forse era la vista.
Doveva approfittare di quel momento di nettezza visiva, prima che lui si svegliasse o che la figlia reclamasse la zuppa di porri.
Non chiamò nessuno, si ricordò che la domenica successiva, (si era in piena campagna elettorale), il sindaco avrebbe organizzato una giornata per l’adozione di cuccioli randagi nella villa comunale.
Una bestiola in casa, un cane guida, ecco cosa le serviva, non le importava di non vedere, anzi.
Però doveva evitare di farsi del male.
Si rimise gli occhiali e decise che dopo tutto non è necessario vedere ogni cosa.