Il lusso delle parole riflesse
Non sto fingendo di pensare (“prendermi il lusso”, come dici tu) che i tuoi problemi non siano profondi quanto e più del dolore fisico, ma stacca per un attimo il pensiero dal rapporto padre e figlia. Possiamo non parlarne più? (Non riesco ad emozionarmi per altro che non sia il dolore delle scelte sbagliate, in fondo, davvero pochi ne sono esenti, ma la maggior parte delle persone assomma, nel corso della propria esperienza, un fascio goffo di errori, che di conseguenza finisce con l’aumentare. Questa è la mia impressione, pensi che possa essere sbagliata?), siamo sedute per mangiare un gelato, e non sono una psicoterapeuta. Però, se posso essere sincera, ti direi una cosa. Saranno parole crude, ma tu come vuoi diventare? (Mi stai per dire una banalità del genere “Il finale determina lo svolgimento della tua evoluzione interiore???”) Cosa vuoi vedere, al di là della tetraggine che graffi? (Essere pratici è così prosaico, anche tu lo sai, come puoi fingere il contrario?) La tua non è una tristezza definitiva, ma una crisi in corso d’opera. Perché non dare qualche possibilità a un pensiero che non sia una sintesi di un pensiero già svolto? (“Non c’è nulla di meglio che tu possa dirmi?”).
Ho trattenuto il ricordo di questo sogno solo per dargli in dono parole diurne e nitide.
Seleziona gli elementi salvabili di questo periodo, tutto il resto dev’essere un sogno, un lungo nottambulismo della tua ragione. O giù di lì. (Ma come sei messa, oggi, TU?)
Questa notte ho sognato un bambino di sette anni e dopo pochi minuti, mi dicevano che era stato adottato. Qualche fanatico della verità a tutti i costi, non io, gli aveva fatto capire che sua madre non era da nessuna parte, su questa terra. Le stanze dell’istituto dove dovevo lavorare come insegnante (credo di sostegno, a questo punto) mi trasmettevano una densa sensazione di sporco, unita a uno sconforto, ben più tangibile dello sporco. Come se tutte le speranze venissero considerate sogni non all’altezza del nostro luogo, circoscritto da Mura. Mura pesanti come una corona non scelta.
Ho trattenuto il ricordo di questo sogno solo per dargli in dono parole diurne e nitide.
Il solo colore che ricordo era l’arancione della gatta morta lo scorso agosto, che passava da quelle parti. Ho pensato “quella non è Puffa, quella è Albicocca!”. E fuggiva via. Il bambino mi implorava una sembianza di responsabilità, esaminava con tremore il mio sguardo, per capire se la sua presenza avesse un valore, ai miei occhi. Te lo racconto, perché tu possa accettare la comprensione parziale dell’intensità del vero. Non avevo capito chi fosse quel bambino, né quella gatta. Eppure, dovrei saperlo, per esperienza. E le ripetizioni date (chiedimi che senso hanno), tante volte mi sono persuasa di conoscere i pensieri di un bambino. E la gatta, come avrò fatto a confonderla? Puffa era nera, con le zampine bianche e dire “che belle zampine bianche ha questa gatta” mi regalava cinque minuti di compiuta felicità. Ma l’ho mai guardata, davvero? Ho mai guardato il mondo senza pensare di conoscerlo già, o come se non fosse un alone che circonda (e duplica) la mia coscienza? Il modo in cui distruggo le mani, quando lascio entrare un pensiero più largo delle forme che nemmeno volendo posso arrivare a pensare? Che romanticume teutonico, dimmelo. Anche il parlarne è mancanza di rispetto, una forma di ottusità auto-riferita che alla luce del giorno si chiama orgoglio. Ha valore interrogarsi sulla validità del ricordo?
Una foglia, i bracciali di ottone. I cestini pieni di fazzoletti. Il brusio effimero delle chiacchiere.
Magari ti senti tradita. Ieri era semplice (basta ascoltare una qualsiasi canzone della nostra adolescenza), in questo tempo che non osi chiamare oggi devi prenderne le distanze, non puoi dare per scontato che le tue fantasticherie abbiano un fondo di sostanza. Certo, non riesci a credere che la comprensione sia un movimento reciproco che ti porta verso gli oggetti che ami. Testa di cavallo, rocce e sentiero di montagna, significanti che irrompono e già sono, senza stupore. Una foglia, i bracciali di ottone. I cestini pieni di fazzoletti. Il brusio effimero delle chiacchiere. Domani: ricorderemo con affetto il sarcasmo di un docente di cui abbiamo scherzato con alacre cattiveria, il suo stupore che avessimo letto tutti i testi, senza appoggiarci a stucchevoli scalette che fanno tanta scena. Avevamo capito la “mordace tenerezza” di Antonio Gramsci, la rivoluzione dei cuori di Hegel, reclamato i nostri struggimenti biologici, misurato i punti cardinali in una città di provincia, lo spazio che alcuni reclamano in ascensore con innocente aggressività, e ricorderò le mie risposte chiare, a volte ostili a chi mi domanda “hai studiato/vissuto/fatto abbastanza esperienze professionali/all’estero/esercizi di punteggiatura inglese/…?”. Il ronzio pulviscolare davanti al cielo e al canale del Piovego ci corteggierà con il suo sporco verde verde. E a chi racconta la sua giornata nelle conversazioni necessarie per dire che “qui è tutto diverso, ma la vita va al solito”, potrò rinfacciare il conforto di farmi sentire la scocciatrice che resto? Una parola tira l’altra, lo sappiamo. E lo ripeto, la tua crisi non è definitiva come sforzi di persuaderci…