La coppa del nonno
Non ho mai conosciuto mio nonno Michele. Avevo solo due anni quando se n’è andato. Mi avrà tenuto in braccio, accarezzato e fatto tutto quello che i nonni fanno di solito con i nipotini di due anni. Ma poi se n’è andato e quello che mi sussurrava nelle orecchie mentre mi annusava è rimasto lì, come un messaggio lasciato dentro una bottiglia. Nelle contrade qui attorno era anche chiamato “Micheli u baruni” e questo per me è sufficiente per dire che doveva essere uno di quelli che, tra le altre cose, avrebbe superato indenne qualsiasi finale di Champions.
Oggi pomeriggio ho incrociato per strada una golf turbodiesel, venuta dritta dritta dalla metà degli anni Ottanta. Sembrava una DeLorean DeNoartri, scagliata a tutta velocità verso il futuro. Purtroppo al volante non c’erano né Emmett “Doc” Brown né Marty McFly. Al volante c’era un berretto sportivo con visiera all’indietro (stile: Yo, fratello) e una barba incolta di tre giorni e mezzo (stile: chicazzosenefregaditeedellatuapuzzasottoilnaso, fratello).
Tra il berretto e la barba vi assicuro che non ho fatto in tempo a cogliere se vi fosse pure qualcos’altro. Per esempio: una qualche forma, seppure primitiva, di vita cerebrale.
Comunque sia, camminavo a bordo strada su una via senza marciapiedi (non ci crederete mai che sia possibile in Italia, lo so.) Camminavo flemmatico sulla sinistra per avere tutto il tempo e l’agio di guardare eventualmente in faccia il motivo di una mia accidentale dipartita (si fa così di solito in questi casi, sapevatelo). Nel frattempo mi tormentavo amabilmente coi miei ricordi freschi freschi della finale contro il Real.
Quando tutt’a un tratto chi ti spunta dal varco spaziotemporale apertosi all’improvviso a poche decine di metri di fronte a me? Ecco appunto.
Non poteva essere proprio quella maledetta DeNoartrilorean, guidata da un berretto stile Yo fratello, a farmi secco una volta per tutte? A cancellare definitivamente ogni mia sofferenza, ogni patema pallonaro?
Certo che dopo il 4 a 1 la mia vita non ha più senso, mi sono detto.
Chi può andare contro il destino? Non certo io, mi sono detto. Se lo avessi saputo fare mi sarei arrangiato l’altra sera. Avrei neutralizzato in qualche modo il doppio clinamen di Cardiff e riportato le cose al giusto posto.
Avrei spinto un po’ più a destra la deviazione di Bonucci e un tantino più a sinistra quella di Khedira. Sarebbero stati due gran bei colpi di carambola, uno finito sul palo e l’altro tra le braccia accoglienti di un Buffon pallone d’oro e la finale l’avremmo vinta noi, con il gol stratosferico di SuperMario Mandzukic. Ma ho realizzato di non aver mai avuto questi poteri in circa un nanosecondo, il tempo esatto che serve a Sergio Ramos per intuire, pianificare e concretizzare la possibilità di una messinscena da premio Oscar, con tanto di finto morto ammazzato dallo scarpino innocente di un moscerino colombiano di passaggio (Juan Guillermo, quoque tu).
Come attaccata ad impalpabili visioni di riscossa ad un tratto la mia mano destra a palmo aperto, con un movimento appena percepibile dall’alto in basso, ha cominciato a supplicare la barba incolta di là dal parabrezza in avvicinamento supersonico, di andare piano e avere pietà del sottoscritto. Pietà, un po’ di pietà per questo uomo a pezzi. Stacca il piede dall’acceleratore. Non dico di frenare, non sia mai che ti si sforzi troppo l’alluce, ma un poco di pietà. Lascia almeno la speranza a questo disgraziato di vedere un giorno non lontano Paulito Dybalino fare una doppietta durante una finale, in faccia alle simpatiche meringhe madridiste.
Ma la mia mano si sarà lasciata prendere un po’ la mano, evidentemente. Tanto che il berretto o la barba (o tutti e due, non ho capito) si sono offesi nell’orgoglio, si son sentiti provocati, e la macchina del tempo invece di concedere la grazia ha deciso tutto a un tratto di voler attraversare la barriera del suono, proprio a un millimetro da me.
Quando mi è apparso un uomo dalle vaghe sembianze di Anthony Quinn provenire dai rimasugli di decibel sparsi nell’aria dopo lo scoppio del rombo di tuono, solo a quel punto, mi sono accorto di essere ancora vivo. L’ho riconosciuto subito: era mio nonno. L’ho sentito chiaro e tondo il messaggio nella bottiglia, stavolta.
Sangu meo, futtitinni. Chissi sù cani ri mannara, cantari a quattromanici chini ri fumeri. U palluni è tunnu, oj a mia rumani a tia.
Sangue mio, non ti curar di loro. Questi individui furono abbandonati al loro destino come cani lasciati scorazzare in mezzo alle mandrie. Godono e son buoni solo ad azzannare qualche pecora indifesa e sono fieri di saperlo fare.
Sono ahimè come pregiate tazze da evacuazione notturna, dei water close da asporto, ma non puliti e utili alla bisogna dei buoni cristiani, bensì già cotanto ricolmi e traboccanti di sé da non aver più spazio per ospitare nulla. Il gioco del pallone è metafora di vita; la vita è imprevedibile come traiettorie inclinate di una palla calciata su un prato verde, deviata lì dove non avremmo mai pensato che potesse finire. Quello che oggi tocca a me, domani la necessità o il caso (a Dio piacendo) si premureranno di consegnarlo alle tue mani.
Mi sarebbe piaciuto conoscerti davvero.