Parole, belle senz’anima
Le parole sono morte.
L’ultima volta che se ne hanno avuto notizie accusavano l’intensissimo timore di scomparire. Esasperanti periodi dal sapore metallico avevano eroso l’ecosistema che regola lo speciale rapporto fra la lingua e le parole.
Perdonatemi se non mi annovero fra coloro i quali sostengono, forse a ragione, che una frase più lunga di cinque righe, o contenente più di tre aggettivi non sia efficace, ma affermo piuttosto che la gravità, lo strascico materico di sillabe, la torsione mentale che alcune frasi impongono finisce per annichilire lo slancio delle parole verso l’alto.
Quando ho scoperto le parole, ero in casa, il mio corpo di bambina giaceva sulla poltrona, in aperta contemplazione della vastità delle conoscenze possibili. Le parole avevano l’odore della conoscenza. Emanavano realtà superiori. Quando le parole sono morte, avevo imparato il cinismo, una reazione dovuta al conoscere stesso. Non fremevo di meraviglia già da tempo di fronte alle parole, né mi capitava di incontrarne di nuove, il giorno in cui esse hanno deciso di mettere fine alla loro vita corporea. Leggere era diventato di colpo un atto impossibile.
Quando ho scoperto le parole, ero in casa, il mio corpo di bambina giaceva sulla poltrona, in aperta contemplazione della vastità delle conoscenze possibili
Le parole sono esplose, come stelle. Mentre morivano ha prevalso in me il desiderio di voler estetizzare la loro fine. Datemi il tempo di guardarvi ancora, state morendo davvero – questo non osavo domandar loro. Le parole hanno brillato urlando, prima di spegnersi. È stata un’esperienza istruttiva per me. Morire è stato il loro estremo gesto di ribellione all’uso che se ne fa, mi hanno confessato in extremis. Il suicidio di uno schiavo. E le ho lasciate morire, arrendendomi alla loro ostinazione. Un minuto più tardi, mi ritrovavo a credere che fossero state spinte a spegnersi, giacché si erano rese conto di essersi trasformate in una droga per molte persone.
Le parole sono esplose, come stelle. Mentre morivano, ha prevalso in me il desiderio di voler estetizzare la loro fine
Io, che avrei usato il codice delle parole in tutte e sei le sue funzioni, senza allontanarmi dall’atto referenziale. Io, che avevo un legame intimo con le loro sonorità. Io, che ero rimasta fedele alle loro necessità chimiche, senza forzarle ad accostamenti innaturali. Io allontano con un soffio le loro ceneri, domando perdono e ribadisco che ne ammiravo la puntuale capacità di adesione alle cose.
Ammetto di essermi strusciata su di esse come dentro un cappotto foderato di velluto. Ammetto di averle usate, di averne preferite alcune ad altre, di aver escluso tantissime delle immagini che esse benignamente mi suggerivano, in nome della mia ansia di semplificare. Mi chiedo se chi complichi il pensiero non sia poi assai più colpevole.
Lo stesso parlare della loro morte rappresenta un tentativo maldestro di riportarle in vita. Una vita più leggera ci implorano. Sia una gioia breve, ma nutrita da aria buona. Accetteranno di essere una rappresentazione centesimale del pensiero e della virtuale sostanza dei sogni, ma ci impongono di imparare a sognare per bene. Di frenare al semaforo che regola lo scorrere delle subordinate e delle incidentali (!), e di trattenere l’urgenza di esprimere la forma totale, fino a rischiare di squagliarne la sostanza. Ora che sono morte, le parole sono solo la nostra più preziosa memoria.
Custodirò il loro segreto, svanendo mi hanno insegnato che il silenzio non è una forma di distrazione, ma un’oasi di ristoro.