La signora Carla – storie di ordinariato
Nel quartiere dormivano soltanto i gatti con un occhio solo e gli altri si stava spesso dietro le finestre in continuo stato d’allerta.
Per uno che dormiva tre stavano ad ascoltare dietro le tende smosse dall’aria notturna di finestre semi accostate e pareti di cemento depotenziato.
Tutti sentirono la frenata che spezzò il torpore dell’alba, molti videro la signora Carla volare per aria, falciata da un’auto, gialla, verde, boh?
Non erano nemmeno le sei del mattino. Le videro persino il colore delle mutande, perché ebbe la sfortuna di ricadere a gambe all’aria e di atterrare come una pigotta sul sacco della spazzatura, che lei, la furbastra, gettava fuori orario. Io ero sveglia, era ora di prepararsi per andare a fare quel lavoro merdoso più della mia faccia ancora gualcita dopo due caffè.
La Carla era ridicola anche da morta, sì morta, più della spazzatura che s’era riversata sulla strada, e su di lei bucce di banana, il brik del latte e scatolette sottomarca, quelle del cibo per gatti, che secondo me piacevano anche a lei che non cucinava mai. Roba di seconda scelta, come la sua esistenza. Ridicola come i suoi grembiuli con la tasca grande dove conservava tutto quello che raccoglieva, sembrava una grande saccoccia ambulante. Adesso mi faceva pena, qualcuno doveva raccoglierla. L’isolato si era improvvisamente animato, sentivo un minestrone di voci provenire da più di un appartamento. Ci fu una voce che sovrastò tutte le altre.
Cominciò con un gran risucchio che riuscì a riportare la strada al silenzio: in galera finirà, omicidio, omicidioooo! Poi piano, quella stessa voce, avrei giurato che avesse detto: a noi resteranno i debiti da pagare.
È la signora del piano di sopra, guarda la macchina che ha investito la signora Carla, è quella della figlia, disse la voce di mia madre alle spalle.
Aveva ragione, c’era un’utilitaria giallo canarino di sbieco sul marciapiede, e una ragazza immobile seduta per terra, la testa fra le mani, i capelli come se dovesse fare uno shampoo e aveva perso un sandalo.
Lei, neopatentata, la macchina, fresca di concessionaria. Adesso quel giallo era un faro mentre fuori albeggiava senza rimedio.
Così avevo afferrato una tovaglia dal mucchio di panni che aspettavano di essere stirati e sentivo mia madre dirmi, cosa fai, che ero già per le scale.
Chiama il 118 mamma, le avevo gridato di rimando.
Morti non ne avevo visti molti, se non consideriamo i parenti anziani, che quelli non fanno impressione, e quelli visti in televisione, che avrei potuto fare da assistente ad un’autopsia.
Le avevo poggiato la tovaglia addosso, al riparo dal ridicolo, ché la morte è veramente una stronza se ti fa morire con le gambe aperte e le mutande vecchie. Quella non stirata hai preso, però hai fatto bene. Mia madre era alle mie spalle, ci trovavamo spesso in questa posizione. La sirena dell’ambulanza confermò che l’assurdità è realtà.
Se solo non fosse scesa al buio… che qui le luci non funzionano. Maledetta amministrazione, dicono che soldi non ce ne sono. Questo perché non ha guardato. L’altra correva come una addannata che si stava ritirando all’alba, una poco di buono. Questo è quello che succede quando due matte si incontrano.
Poverina. Ma chi? La morta o l’assassina?
Lei l’altra, era impietrita che mi sembrava morta e scomposta.
I genitori le stavano davanti come due pali della luce privi di corrente. Io e gli altri ci tenevamo a distanza, come se l’avvicinarsi avrebbe potuto contaminarci della sua colpa.
La madre della ragazza piangeva, il marito non sapeva chi consolare. Guardava la figlia, la moglie, l’auto semidistrutta.
La prima ambulanza portò via la ragazza accompagnata dalla madre, la seconda, la signora Carla, mia madre recuperò la tovaglia che era stata sostituita con un telo dal paramedico, la piegò e quasi vergognandosi la gettò in quel cassonetto che la morta non era riuscita a raggiungere. Non ci possiamo mangiare più, disse sottovoce, poi salì a stirare che già era tardi.
Chi non aveva nulla da fare rimase a discutere, e metti sopra e metti sotto, a guardare i vigili dell’infortunistica che ricostruivano l’accaduto che cercavano testimoni oculari.
I gatti avevano visto tutto e piangevano, con entrambi gli occhi, la loro gattara.
Io sarei arrivata un’altra volta in ritardo e siccome avevo esaurito le balle disponibili per giustificarmi, mi avrebbero levato soldi dallo stipendio. I nonni li avevo fatti fuori, almeno due volte negli ultimi anni, mio padre era morto sul serio e mia madre la avevo fatta star male a fasi alterne, tanto che gli uomini cominciavano a toccarsi di nascosto quando mi incrociavano nei corridoi e le donne dicevano: poverina, ma come fa a resistere? Mi chiedevo se la verità una volta tanto l’avrebbero bevuta.
Anche la signora Carla adesso tornava utile a qualcuno, avrei potuto pure chiedere diversi permessi, ero una testimone dell’accaduto, avrei infiorato di dettagli un po’ qua e un po’ là, non è che uno si ricorda tutto la prima volta, lo dicono anche nei telefilm americani, e poi c’era il funerale, ne avrei approfittato per fare il primo bagno di stagione.