Sei meno meno
L’alfabeto greco ha un fascino che pochi riconoscono.
Così anche io non avevo fatto in tempo ad accorgermi, durante i primi giorni del ginnasio, di quanto bisognasse amarne la grammatica e quanto fosse essenziale studiare tutti gli splendidi tesori racchiusi in quella ortografia antica e ghirigorica.
La punizione del fato per la mia sconsideratezza da principiante ha preso corpo in un votaccio che a lungo dentro il mio cervello è stato accompagnato dalle generose parole della mia professoressa.
Sarebbe stato un quattro e mezzo al massimo. Ma, coraggio su, lo tramuto (abracadabra simsalabin) in un benaugurante cinque meno meno.
Da quel momento il meno meno è entrato nella mia vita come per magia e, devo confessare, ha preso subito il posto d’onore di una grande imperscrutabile cifra metaforica.
La veste elegante di un incoraggiamento alla mediocrità, si potrebbe dire.
Da qualche settimana a questa parte il mio cervello, in incipiente sindrome da burn out, fa la spola tra famiglia e lavoro, tra una varicella e le interrogazioni, tra un pancione in crescita costante e gli esami di stato in avvicinamento.
Sembro il flipper di una pallina impazzita che sbatte a destra in una ginecologa, sull’orlo di una crisi di nervi, e rimbalza a sinistra su un mucchio nutrito di adolescenti adrenalinici, in preda a convulsioni ansiogene.
Sono molto orgoglioso di me stesso per essere riuscito, fin qui, a non dare di matto. E sento per questo motivo la necessità di rispolverare un “meno meno con sorpresa”, proprio confezionato per occasioni come queste.
Provo a spiegarmi.
Mia moglie insiste che dovrei cambiare aria. Cambiare connotati, identità, uscire per comprare le sigarette (naturalmente non sono un fumatore), abbandonare tutto e tutti e non tornare mai più, non voltarmi indietro e dimenticare per sempre la mia vita di adesso.
Secondo il suo ragionamento ho tutte le carte in regola per sfondare, ma dovrei farlo in un’altra vita.
Crede di avermi plasmato con tale maestria da fare di me una macchina da guerra.
Certo, quando mi ha trovato lei, abbandonato a un angolo di strada, le cose erano molto diverse. Ero un esserino pulcioso e maleodorante, con gli occhi tristi e la coda tra le gambe, fuori contesto e fuori tempo massimo.
Ha dovuto lavorare parecchio per rendermi quello che sono: un purosangue di razza capace di qualsiasi impresa.
Sostiene che potrei addirittura avere l’imbarazzo della scelta se solo lo volessi e intende dire, naturalmente, che i due capelli bianchi comparsi di recente sulla mia capoccia mi avrebbero finalmente trasformato in Richard Gere.
Lei è troppo buona con me e quando dico troppo intendo dire che non è buona per nulla.
Sfoggia con disinvolta maestria una bordata di consigli e previsioni, esercitando a mena dito il prontuario per mariti fessi, contenuto in appendice al manuale di psicologia inversa.
Mi dice le cose da fare sapendo che questo mi costringerà di fatto a oppormi con tutto me stesso alle sue raccomandazioni. Ergo rimarrò al guinzaglio. E con tanta più pervicacia quanto più lei insista a prospettarmi vite futuribili da quarantenne impenitente.
Oppure c’è un messaggio subliminale dietro le sue parole che devo ancora provare a decifrare per benino.
Forse mi vuol suggerire che la mia è una vita da sei meno meno: il ragazzo se la cavicchia, tutto sommato è solo a due passi dalla sufficienza, ma potrebbe impegnarsi di più.
Mi consolo pensando che mia moglie non ha mai studiato il greco antico (anche se sostiene di conoscere perfettamente i poeti lirici greci) e questo, secondo me, fa la differenza.
Dietro le difficoltà della traduzione dal ghirigorico qualcuno perde dei pezzi di senso, lo posso capire, e si rischia la brutta figura. Si dice lost in traslation mica per niente.
La cosa paradossale è che il pezzo andato smarrito nella sua versione dei fatti, stavolta, riguarda proprio lei.
Ecco come chiuderei, invece, la mia versione dei fatti.
Ho preso un solo nove in greco al liceo. Traducevo una lirica di Saffo. Ricordo si trattasse del frammento n. 34, della luna, della sua luce piena, rotonda, che fa impallidire lo splendore delle stelle.
Le stelle circondano la bella Luna/nascondono lo splendido/ loro contorno/quando d’argento/ lei si riempie/ girovagando sopra la terra.
La sproporzione capovolta tra luce stellare e albedo lunare mi aveva suggerito le parole giuste.
L’intensità della scelta dei termini in italiano, la libertà ponderata nella costruzione sintattica, la resa poetica complessiva avevano colpito la mia professoressa e fatto di me ai suoi occhi un aspirante Nobel per la letteratura: il mio meno meno era finalmente fiorito in una piccola gemma.
Il ricordo di quella fioritura ha assunto nella mia memoria silenziosa la forza di un mitico annuncio.
Tra quelle lettere antiche avevo scoperto il ritratto dell’amore.
Solo quindici anni dopo, alzando lo sguardo appena sopra la linea dell’orizzonte terrestre, ho incrociato il viaggio della mia luna. Era lì, così vicina e così bella, che mi è sembrato di poterla sfiorare.
Ho allungato il mio dito verso di lei, l’ho avvolto con una ciocca dei suoi capelli e da qualche anno, oramai, non smette più di trascinarmi nel suo girovagare sopra l’orizzonte.
Anche se tutte le stelle del cielo insieme si decidessero a farti la guerra, amore, tu le renderesti innocue, la tua luce rotonda le trasformerebbe in semplice cornice alla bellezza.