I giorni dell’abbandono
La Ferrante mi perdonerà se ho rubato il titolo di una sua opera, ma la sua storia mi ha fatto pensare ai giorni dell’abbandono, giorni pieni di assenze in cui dimentichiamo nomi e contorni.
Oggi scelgo queste parole di burro per accarezzare i cuori infranti che ho incontrato per strada e che mi hanno raccontato del loro dolore senza forma e senza nome. Un dolore che conosciamo tutti, ma stiamo attenti a non nominarlo mai, ad allontanarci dal baratro prima di poter ricordare troppo vividamente.
Sono giorni tristi in cui dimentichiamo che anche prima di quel qualcuno riuscivamo ad essere felici, a bastarci. Cosa è successo adesso alla nostra mano, alle labbra? Cosa è successo a questo corpo che non riconosciamo più? Anche le dita non sanno più come stare ferme senza intrecciarsi ad un’altra mano, senza accarezzare un’altra nuca. Diventiamo smezzati, storpi, non ci riconosciamo più. Lo specchio riflette un solo nome e il suono d’un tratto diventa estraneo.
Per non parlare della geografia del dolore che ripercorre strade, cibi, tramonti, gelati, ogni cosa condivisa e pronta ad essere riguardata con lenti distorte. Quella volta che abbiamo provato il sushi, quel tramonto rosso fuoco che ho fotografato mentre tornavamo a casa, tu che mi guardavi, io che cambiavo la stazione radio. La lista si allunga, il dolore si sfilaccia senza perdere spessore. Dimentichiamo di essere stati curiosi un tempo, per conto nostro, quando sapevamo fare coppia con noi stessi per lunghi anni. Dimentichiamo anche la forma del futuro prima che imparassimo a condividerlo, a colorarlo in due, prima che i sogni dissolti spargessero veleno.
Guardo queste anime che mi raccontano della loro battaglia, di un male senza segni e penso che un giorno si riconosceranno di nuovo. Non oggi, non domani, ma presto si ricorderanno di quella volta in cui volevano davvero fare per loro. Da soli. Impareranno a non tradirsi più, ringrazieranno il loro cuore per aver sopportato tanto, prometteranno di non romperlo più. Chissà poi come andrà a finire.
Arriverà il momento in cui si ricorderanno dei loro giorni dell’abbandono. Ricorderanno l’intensità del dolore senza più conseguenze, si sentiranno più grandi, più stupidi, più saggi. Capiranno che il vero abbandono che hanno subito, l’unico che hanno lasciato che accadesse, è l’abbandono del loro essere. Hanno dimenticato che sono belli anche così, da soli, senza coppia, senza mani intrecciate. Come guerrieri appunteranno le proprie cicatrici, le promesse, gli errori fatti e rifatti, quelli nuovi. Accantoneranno i loro giorni dell’abbandono e si sentiranno di nuovo pieni, pronti.
Il prossimo amore sarà bello, sapranno cosa non vogliono, proveranno empatia per le ferite altrui e tenderanno la mano a chi nel baratro ci sta cadendo ora. Ma questo ancora non possono saperlo, hanno ancora gli occhi spenti sul passato, i battiti più lenti, il respiro irregolare. Giacciono ancora nel loro abbandono.
Proprio come la protagonista del libro di Elena Ferrante, non sanno ancora uscire dalla loro casa. Restano inerti, blindati nelle quattro mura mentre giocherellano con le chiavi tra le mani.
Non lo sanno ancora, ma impareranno a infilare di nuovo le chiavi nella toppa. Questa volta, però, riusciranno anche ad uscire.