Totò, Peppina e la malapoesia
A diciotto anni, ogni farloccosofa che si rispetti si sveglia una mattina col desiderio irrefrenabile di scrivere poesie.
Ne scrive a valanghe, vogliate perdonarla.
Arrivata in Italia da poco la nostra aspirante poetessa ha già un bel malloppo dentro ad una vecchia carpetta grigia.
Ha anche un padre, aspirante attore in gioventù, che è il suo tifoso numero uno.
Vogliate perdonare anche lui, gli ultrà sono un cuore solo con la loro squadra preferita.
Il nostro aspirante attore in un breve periodo di permanenza a Roma, da giovane, usava andarsene a zonzo in giro a Cinecittà per procacciarsi una particina da figurante in qualche film. Ogni mattina verso le cinque, sei del mattino si ritrovava con altri come lui in questi happening degli anni cinquanta, ricevevano un piccolo compenso, scroccavano un pranzo e conoscevano le stelle del cinema.
Anni dopo si divertiva a ingarbugliare gli aneddoti e gli occhi ai figli, sfidandoli a trovarlo tra la moltitudine delle comparse in qualche film italiano dell’epoca.
Nel 1999 l’aspirante poetessa è appena arrivata in Italia dal Sud America. Un giorno il padre legge nel Giornale di Sicilia l’annuncio di un concorso di poesia a Gibellina e la invita a partecipare. Lei accetta e tempo dopo viene chiamata a declamare le due poesie con le quali partecipa, in quella cittadina di cui non aveva mai sentito pronunciare il nome, per tre serate consecutive.
Un’aspirante poetessa e un aspirante attore partono all’avventura.
Gibellina Nuova é un centro abitato a circa settanta chilometri da Palermo, andando verso sud-ovest. Sorta dopo il terremoto del Belice del 1968, é divenuta col tempo una specie di laboratorio urbanistico al quale hanno partecipato personaggi come Ludovico Quaroni o Arnaldo Pomodoro, tra gli altri.
Ha la coppola leggermente girata da picciotto antico, ma è vestito come un Mastroianni metropolitano
I nostri entrano nella città-laboratorio guidando una fiammante Peugeot blu.
La conformazione urbanistica della città nuova non ricorda molto l’impianto di quei vecchi e tradizionali paesi di stampo arabo-normanno caratteristici del panorama siculo. Sembra piuttosto un esercizio di stile di alcuni artisti, intellettuali e politici seduti attorno a un tavolo a guardare e scarabocchiare carte e cartine. Un’utopia razionalista, nascosta nel territorio dei famigerati, temibili e ben conosciuti mafiosi fratelli Salvo, a ben undici chilometri di distanza geografica e a diversi anni luce di distanza stilistica dal vecchio centro distrutto.
I due si fermano all’ingresso della città, il padre è pronto a sfoggiare con calma il suo dialetto siciliano lucidato a nuovo, dopo anni di permanenza in Latinoamerica. Ha la coppola leggermente girata da picciotto antico, ma è vestito come un Mastroianni metropolitano. Il suo personaggio sembra quello di un film di Fellini che entra per sbaglio in un paese fantasma uscito dalla mente di Sergio Leone. Ad Alessandro Alessandroni verrebbe da fischiare.
La sua copilota è un’aspirante poetessa colombiana, ancora ignara delle dinamiche e dei codici di comportamento siculi, investita dall’euforia inconsapevole di chi è nuovo in un posto e non gliene frega niente delle figuracce. Parla un italiano forbito imparato nei sussidiari a scuola, in una lontana cittadina sudamericana.
In un’epoca in cui ancora non ci sono i cellulari col GPS, i due viaggiatori si fermano a chiedere indicazioni e a sfogliare divertiti il Tuttocittà. Ci sono questi tre signori anziani del profondo Belice impegnati a giocare con le carte siciliane, mostrandosi del tutto indifferenti a quei due nella macchina blu che abbassano il finestrino per capire come arrivare alla sala del teatro. Si guardano e sghignazzano quando li sentono chiedere in dialetto le indicazioni. Ai loro occhi sarà sembrata una versione stramba di Totò che insieme a Peppino tentano di parlare il milanese con un poliziotto, vicino al duomo. Totò e Peppina , versione padre e figlia. Ai viaggiatori quelli appaiono invece come gli unici abitanti di una post-apocalisse urbanistica, sopravvissuti senza essersi mai allontanati dal loro gioco in strada, seduti attorno a un tavolino in legno alle sei del pomeriggio.
Per tre serate l’aspirante poetessa incanta una giuria, già rassegnata dall’inizio ad ascoltare soltanto le ultime esternazioni letterarie dei soliti trovatori del luogo.
Ritentano la fortuna in una pizzeria che sta aprendo, fanno anche amicizia con la proprietaria che li guarda divertita, perché non trova alcuna ragione logica a giustificare quei tipi che arrivano da Palermo per leggere due pezzi di carta che non riguardano inaugurazioni o politica o alcun compenso pecuniario. Padre e figlia se ne infischiano e mangiano. Saranno serate surreali ma l’Arte li chiama a partecipare a questo cortometraggio, senza vergogna.
Per tre serate l’aspirante poetessa incanta una giuria, già rassegnata dall’inizio ad ascoltare soltanto le ultime esternazioni letterarie dei soliti trovatori del luogo.
Si ritrovano invece con due extraterrestri arrivati da terre ben più lontane di Palermo e con le loro aspirazioni importate dall’America.
Il finale, per niente scontato, ci racconta che lei vince il concorso con la sua malapoesia.
Riceve in premio una targa d’argento (con su scritto “vincitore”) e un piccolo libricino con tutte le poesie partecipanti. I due viaggiatori salutano tutti e senza neanche aspettare un ipotetico brindisi con pasticcini, scappano per riprendere la strada di ritorno alla realtà.
Come in molti film, dal finale un po’ inaspettato, il vero divertimento è stato seguire la trama e accompagnarli nel viaggio. La poesia come reperto archeologico (non sprovvisto dei doverosi refusi storici) dalle spudorate e ottimistiche intenzioni giovanili era la seguente: