Amare Calcutta
La prima volta che ho sentito parlare di Calcutta è stato in seconda elementare, quando nel sussidiario avevo letto ad alta voce in classe un brano su Madre Teresa. Non ci avevo capito un granché ma ero rimasta colpita da una faccenda. Sembrava che la gente non se la passasse affatto bene, lì a Calcutta. Anzi, se la passavano talmente male che le persone facevano cose terribili. Per pochi soldi erano disposti a rinunciare a cose molto importanti, come un rene o a diversi litri di sangue.
Quando ho fatto presente alla maestra che se avevamo due reni forse c’era un motivo valido per cui non era giusto togliersene uno, lei mi ha accarezzato e mi ha raccontato una storia sull’importanza di essere grati per le cose che abbiamo e che ci consentono di essere felici e in salute. Tutta la questione mi aveva fatto rimanere un senso di sgomento perché, sì, ero molto grata delle cose che avevo, specie dei miei reni, ma ero anche un po’ preoccupata se c’erano persone che li vendevano per fame.
C’era qualcosa che il mio animo di bambina non riusciva ad accettare.
In seguito, una volta in India, ho ripensato molto a quel brano e a quanto di vero potesse esserci. L’India non ha mezze misure e ti sbatte in faccia delle realtà molto dure e quindi, sì, sicuramente in quella storiella probabilmente raccontata da qualcuno che a Calcutta non c’era mai stato, c’era del vero, ma forse c’erano delle sfumature che mi avrebbero consentito di vederla sotto un’angolazione diversa.
E così, quando mi è capitata l’opportunità di andarci, ho deciso di spogliarmi di ogni costrutto mentale e di lasciarmi avvolgere dalla città.
Calcutta sta nel West Bengal, uno Stato vicino al Bangladesh. Lì la natura è prepotente, selvaggia. Tutto è verde, un verde acceso che quasi acceca. Palme, banani, altissimi alberi di neem dai quali spuntano case e palazzi colorati e decadenti. A Calcutta il monsone è sempre abbondante e questo ha un riflesso immediato sull’architettura della città che sembrerebbe abbandonata a se stessa anche se pullula letteralmente di vita. Nel tragitto dall’aeroporto alla macchina sono rimasta stupita. Alcune vecchie linee di tram tagliavano in due vialoni ampi e alberati, uno scenario che in India è piuttosto raro. Casette basse in cortina, palazzotti in stile vittoriano che ricordavano quando la città era la capitale e ospitava il Raj. Mi stava iniziando a entrare sotto la pelle Calcutta e stavo allontanando l’immagine della miseria che frustra la dignità dell’uomo. Il mattino seguente, molto presto, ho deciso di fare una passeggiata per le stradine intorno all’albergo.
La città si stava svegliando e io, in punta di piedi, volevo spiarla. E quando si spia, non sempre quello che vedi ti piace.
Ho visto uomini magrissimi, emaciati, che si lavavano in rigagnoli d’acqua; ho visto donne appoggiare a terra tra i sacchi della spazzatura neonati di pochi mesi con gli occhi da adulti per poter lavorare nei cantieri stradali. Ho visto bambini fare cose da grandi e ho visto adulti lasciarsi portar via un’esistenza che non gli aveva dato nulla se non sofferenze. E il caldo, e l’umidità, e il sudore. Gli odori, i rumori. Tutto si centuplicava in un vortice di emozioni che mi stava riportando con prepotenza a una realtà che speravo di non vedere.
E mentre sentivo l’asfalto sciogliersi sotto le mie scarpe ho pensato che se esiste un buco nero in cui l’umanità viene risucchiata, questo buco nero è Calcutta.
Mi è entrata sotto la pelle, Calcutta. E ci è entrata dolorosamente, con forza, facendomi fischiare cuore e orecchie ricordandomi l’inferno dei viventi di Calvino. Ricordandomi lo sgomento che avevo provato a sette anni. L’ho amata Calcutta e l’ho amata di quell’amore che si prova verso un animale ferito che nonostante il dolore si alza e ricomincia a lottare.
A sopravvivere.