Il disagio del villaggio
C’è stato un tempo in cui il disagio del grunge esercitò una forte influenza sulla mia vita. Influenza che si basava principalmente sul tenere i capelli lunghi con la riga in mezzo e non particolarmente puliti, e indossare una camicia a quadri tipo falegname. Brandivo un po’ di slogan, affrontavo il mondo a viso aperto e con vena polemica riguardo alle cose che non mi convincevano, soprattutto per quel che riguardava l’adagiarsi nella certezza della propria fortuna ignorando deliberatamente tutto il resto del mondo. E, infine, nel tentare infruttuosamente di suonare con la chitarra Starway to heaven dei Led Zepellin e All apologies dei Nirvana.
In quel tempo avrei chiamato i miei cani con nomi altisonanti come Nietzsche, Frida o Trotsky.
Tutti vantiamo un passato adolescenziale e aneddoti imbarazzanti in grande quantità.
Col tempo sono migliorate tante cose. Le camicie a quadri le ho lasciate ai boschi e ai falegnami, cani da chiamare in modo assurdo non ne ho mai avuti, i capelli sono tornati puliti e ho deciso di lasciare la chitarra a chi la sa suonare, abbracciando la causa contro l’inquinamento acustico. Sono rimasti intatti un leggero snobbismo di fondo e una vena polemica.
Prima di diventare mamma, non mi sarei neanche sognata di avvicinare un villaggio vacanza.
Era il simbolo di tutto ciò che avevo denigrato sempre: i buffet esagerati in cui tutti ingurgitano cibo senza ritegno, i balli di gruppo, gli animatori. Ho sempre pensato che se avessi avuto dei figli li avrei tenuti alla larga dall’inferno dei prati perfetti, delle palme nane e degli appartamentini a schiera, dal gioco caffè e dal braccialetto di riconoscimento.
Qualche giorno fa ero seduta in mezzo a un grande salone. C’era una musica assordante e gli animatori eseguivano delle coreografie su dei motivetti appiccicosi e inutili, seguiti da un esercito di bambini sincronizzati.
Io stavo dibattendo con una bambina di due anni sulla necessità di trovare il coraggio per salire sul palco ad arruolarsi in quell’esercito del divertimento. Ci sarebbero stati dei documenti fotografici e video a testimoniare la sua felicità e le sue capacità per il ballo. C’erano anche un lemure e un polipo giganti a ballare, come resistere?
Non riuscivo quasi a parlarle per il volume della musica ma anche perché avevo mangiato senza vergogna mezz’ora prima ad un buffet di proporzioni matrimonio-al-sud. Lei per qualche minuto ha tentato l’approccio ragionevole del non ci vado perché non mi va, seguito dai pianti disperati e dalle tribolazioni fisiche di chi capisce di avere una fondamentalista del divertimento davanti che non sente ragioni.
Il giorno dopo una scenetta simile in piscina. Com’è che questa bambina non vuole infilarsi in una stanza sauna dove c’è una piscina piena di bambini che probabilmente hanno poco tempo per avvisare i genitori delle proprie necessità fisiologiche? Sincronizzano anche qui una specie di coreografia e spruzzano e saltano e gridano all’unisono, ma questa volta i genitori sono distratti e assopiti su delle sdraio dopo un altro pranzo monumentale. Fanno finta di non vedere quei nuvoloni neri che entrano dalle finestre dietro ai loro occhiali di sole, perché fuori c’è freddo e sta per piovere ma là dentro il caldo fa pensare di stare ai Caraibi e va bene così.
Guardando indietro, senza litigate spazio temporali con quello che pensavo anni fa, la mia ritrosia forse non combaciava con snobbismo neanche all’epoca (magari solo un poco), ma piuttosto con il senso di disagio
Lei voleva stare fuori al freddo a guardare e raccogliere margheritine poco più in là del cancello. Eravamo dentro a un altro ampio dibattito su quello che io ritenevo un momento di divertimento e apprendimento versus la sua versione dei fatti (che comprendeva la voglia di andare al mare o a casa o se proprio impossibilitati, di continuare semplicemente a guardare i fiori al gelo), quando un leggero lampo di disagio mi ha percorso la schiena.
La me stessa di qualche anno fa mi è apparsa attraverso i finestroni e tra i fumi della sauna, mi ha fulminata con uno sguardo di disappunto, dall’alto delle sue antiche considerazioni metafisiche e sociali. Ho una figlia che fa prevalentemente quello che le piace e che ha una sua idea personale del divertimento. Io invece ho venduto la mia anima, forse per bisogno di facilitarmi la vita, di non stancarmi più del dovuto. Di semplificare. Di non pensarci più di tanto.
Guardando indietro, senza litigate spazio temporali con quello che pensavo anni fa, la mia ritrosia non combaciava con snobbismo neanche all’epoca della disadattata chitarrista (magari solo un poco), ma piuttosto con il senso di disagio (lo stesso che stavo provando in quel momento).
Con le domande che è giusto fare e i dubbi che è giusto porsi.
Se non ci tocca direttamente, che ci pensi qualcun altro a salvarci tutti. Lontano dal nostro cancello, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Con il non volersi adagiare in una posizione in cui tutto deve essere per forza pronto e cotto e asettico e organizzato perché iniziamo a diffidare dell’avventura, di quello che non conosciamo, di tutti gli estranei, degli imprevisti. Perché non ci sentiamo in grado di affrontare le brutture che potrebbe riservarci il cammino.
Ma qualcosa mi dice che non posso nascondermi per sempre.
Qualcosa mi dice che stiamo lasciando troppo nelle mani di altri e che, da un po’ di tempo a questa parte, questi altri sono diventati sempre la nostra versione peggiore. I politici che scegliamo, gli ideali che abbracciamo, le soluzioni sempre più facili e proporzionalmente più convenienti, sempre a nostro vantaggio (con chiunque ci vada di mezzo), con cui risolviamo i problemi. Spegniamo TG e notizie. Mangiamo e beviamo fino a non pensarci più, balliamo i balli di gruppo (quella non ha proprio scusanti ma dopo le bevute suddette chi può sottrarsi). Sentenziamo. Proteggiamo gli animali a spada tratta ma guai ad ascoltare le storie di chi soffre e ci sta accanto ed è umano come noi. Ci riteniamo già troppo appesantiti per dover reggere altri carichi. Affrontiamo quindi realtà di morte, di sofferenza, di crisi altrui come fossero piccoli moscerini da scacciare. Se non ci tocca direttamente, che ci pensi qualcun altro a salvare tutti. Lontano dal nostro cancello, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Una bambina di due anni mi ha ricordato questa settimana che ci sono le margheritine qualche metro più in là da dove mi stavo nascondendo. Sono là, fuori dal cancello, anche se sta per piovere. E che è giusto dire no, non mi va di fare (pensare, dire) tutto quello che fanno (pensano, dicono) gli altri.
Mamma, voglio andare al mare e a casa e con i miei amici.
Io pure, figlia.