When We Rise – sorgere e ribellarsi
To rise è un verbo che, come spesso accade nella lingua inglese, ha diverse sfaccettature: può significare alzarsi, sorgere, andare verso l’alto, ma anche crescere e soprattutto, ribellarsi.
E’ bello come la parola sorgere che rimanda al sole, al nuovo che avanza, al giorno da scrivere, condivida la stanza con la ribellione.
When We Rise, docudrama ideato da Dustin Lance Black e prodotto tra gli altri da Gus Van Sant, racconta il sorgere di un movimento e la ribellione di decine, centinaia, migliaia di persone.
La serie racconta in una manciata di puntate la storia del movimento LGBT negli Stati Uniti e ruota attorno alla figura di Cleve Jones, che ha attraversato da protagonista oltre 40 anni di storia del movimento.
Cleve Jones, fino a pochi giorni fa un perfetto sconosciuto per la sottoscritta, è balzato di prepotenza nella hit parade delle persone che suscitano in me un misto di ammirazione, tanta, invidia, abbastanza e senso di inferiorità, molto.
Come ci si sente ad essere la prima generazione a non avere uno scopo per cui combattere?
– Come ci si sente ad essere la prima generazione a non avere uno scopo per cui combattere? – lo chiede a bruciapelo al giovane intervistatore il Cleve Jones sullo schermo.
Me lo sono chiesta anch’io.
Mi chiedo anche come ci si senta invece ad avere uno scopo per cui combattere, come ci si deve sentire a svegliarsi ogni giorno con un fuoco dentro, con una battaglia da condurre, e vinta una battaglia passare alla successiva, con l’obiettivo che le proprie conquiste siano le conquiste – se non di tutti – almeno di molti.
Our lives are linked , le nostre vite sono connesse, quello che affligge il mio prossimo affligge anche me, ciò che libera il mio simile libera me.
E’ un concetto profondo e al contempo semplice: tratta gli altri come vorresti essere trattato. Un principio universale troppe volte disatteso dalla presunzione di sentirsi isolati e invulnerabili, di credere che i problemi siano sempre di qualcun altro e mai i propri, come è successo con l’epidemia di HIV che ha falciato centinaia di persone e che sembrava non essere un problema di tutti.
I gay se lo meritavano, era un castigo divino.
Adesso sappiamo che non è così, che è stato ed è tutt’ora un problema che coinvolge tutti noi, ricchi, poveri, etero, gay, bisessuali, transessuali, casti e promiscui, religiosi e atei. Tutti.
Il problema non è mai solo mio, non è mai solo tuo, ma è nostro. Siamo umani.
Spesso ce lo dimentichiamo, è facile creare distanze, sottolineare le differenze, da una parte noi, dall’altra loro, è facile.
Ma sentirsi parte di un noi più grande e più umano è difficile e onestamente non sono nella posizione giusta per arroccarmi a paladina della giustizia sociale.
Io uno scopo non ce l’ho, o non ce l’ho ancora.
E non possiamo pensare che il mondo cambi con un click sul nostro pc. Un click su una petizione online non ci permetterà di salvare nessuno né di cambiare il corso della Storia. La Storia si cambia facendo, anche cucendo una lunga trapunta in memoria di chi non è sopravvissuto alla piaga del secolo, creando una bandiera che rappresenti un movimento, un mondo; allargando la propria lotta; prendendosi a cuore le battaglie di altri; aprendosi al mondo; stando in ascolto dei bisogni altri e farsi cassa di risonanza.
E oggi si ripropongono temi e fantasmi del passato, campi di concentramento, di rieducazione per persone omosessuali, profughi che bussano alle nostre porte – gli ultimi sempre più ultimi – oggi si fa a gara a negare diritti per paura di cosa? Di veder arretrare il nostro spazio, ingiallire l’erba del nostro giardino.
Io sono quella che non scende in piazza, che non si incazza, che in fondo sta bene nel suo cortile
Siamo pronti a sentire in ogni nostra cellula il dolore e la sopraffazione subiti da un nostro simile altrove, come diceva qualcuno ben più importante di me?
Io non so se sono pronta. Non lo so.
La mia vita è comoda, divanosa, provo invidia per figure come quella di Cleve Jones, impavide, o forse impaurite ma più forti della paura, più forti della malattia, scomode eppure al loro posto, un ingranaggio nella storia, uno strumento di cambiamento.
Io sono quella che pensa che basti un click per salvare una donna, un uomo, un bambino dalla fame, dalla tortura, dalla sofferenza. Sono quella che non scende in piazza, che non si incazza, che in fondo sta bene nel suo cortile.
Io lo ammetto. Ne sono consapevole.
Il passaggio dalla consapevolezza all’azione è un percorso tortuoso e sicuramente non in linea retta, da affrontare con incoscienza ma sicuri di sé. Siamo pronti a cercare qualcosa per cui valga la pena lottare?
Sono pronta?
Se volete approfondire:
Sierra College Pride Days Presents: Cleve Jones