Vette
Era una domenica di giugno, il sole governava il cielo senza troppi grattacapi e gli atlanti riportavano ancora il nome URSS sull’enorme distesa di terra che congiunge Europa e Sol levante. Di questo non sono sicuro, a dire il vero. I miei primi ricordi dotati di una certa continuità sono balistici e si riferiscono al mondiale delle notti magiche e dei crucchi campioni. Ecco, lì i russi portavano una maglietta con scritto CCCP, che traslitterato significa URSS. Penso ne avessero già i coglioni pieni dei Soviet, ma la maglietta era proprio bella e quindi decisero di fare un mondiale e poi, nel caso, di pensarci un attimo sopra. Doveva essere il 1990 quindi. O il 1989. Una cosa del genere, insomma.
Era una domenica di giugno e io osservavo gli appennini. Avevo sette anni, forse otto, un caschetto di capelli biondi sempre sudati e la morchia sotto le unghie dei piedi per via dei sandali e della terra smossa dietro casa. Ogni tanto mi moccicava il naso e passavo l’indice da narice a narice. Morsicavo un gelato con le fattezze della Pantera rosa e avevo non poche remore nell’azzannare l’occhio destro al felino. Le mie piccole chiappe poggiavano sul soglio della porta della cantina. Non era tutto mio quel soglio: metà per me, l’altra metà per mia nonna. Lei mangiava uno stecco ducale. Ha sempre mangiato stecchi ducali, mia nonna. Penso li mangiasse anche quando aveva quarant’anni. Sempre che se li potesse permettere.
Io guardavo i monti e pensavo che fossero così frastagliati perché un titano, forse duecento anni prima, li aveva smangiucchiati e impresso sulla roccia il calco del suo apparato dentale. I monti dell’appennino tosco emiliano sono aguzzi, ma regolari. La roccia riflette il sole, le vette affilano le nubi. Mia nonna guardava le viti a pochi metri da noi e sospirava. L’annata era pessima, il vino avrebbe fatto più schifo del solito. Il bianco era una merda pure quando diceva bene.
Non pensavo si potesse scalare quelle vette. Non si può salire su una montagna, in generale. Se i greci fossero saliti sull’Olimpo avrebbero scoperto che la storia di Zeus era una stronzata grande come il Peloponneso. C’era qualcosa di sacro in quelle montagne. Così come certe donne. Ci sono donne che sono sacre, devono rimanere nell’harem dei sogni, se qualcuno le prende sfioriscono, divengono materia, carne. Bestemmiano pure, a volte.
Nessuno è mai salito lassù. La nonna me lo confermerà e così potrò cullarmi in sogni tranquilli. E invece la nonna non conferma proprio un bel niente. Certo che ci sono saliti. Tanti ci salgono lassù. Tanti. No, non ci credo. Sì, invece, e non ti pulire il naso con la mano, tieni il fazzoletto. Nonna non essere materiale, dimentica di essere nata povera cazzo, di aver avuto il primo paio di scarpe a dieci anni, di aver abbandonato la scuola a otto anni per pascolare le mucche. Anche il nonno c’è andato? No, il nonno no. E il babbo? Il babbo non lo so, non mi dice mai niente tuo padre, credo di no comunque.
Ho chinato la testa. Una formica attraversava il grand canyon delle mie gambe. Merda, ho pensato. La formica si è fermata un attimo. Poi è ripartita.
Quando una cosa si può raggiungere, quando un sogno, volendo, lo puoi afferrare, cambia tutto. Il crepuscolo degli Dei. Fa comodo pensare che lassù ci sia Zeus e le cose vadano come vogliono andare, tanto il destino dipende dai suoi stupri di giovenche. Se però dipende da te è una gran rottura di cazzo. Se non ci arrivi subentra il rimpianto e tante storie brutte che contribuiscono a rendere la vita una merda. Il desiderio di conquistare quelle montagne mi ha accompagnato per tutta l’infanzia. Talvolta tormentato.
Poi un giorno ci sono arrivato lassù. Avevo qualcosa meno di venti anni, la maglia della Russia non era più rossa e CCCP era una cosa punk da infilarsi nei padiglioni auricolari. Tirava un vento infernale e le nuvole toscane si infrangevano contro la cresta delle montagne per poi ricomporsi e parlare un dialetto che sapeva già di emiliano. Avevo la schiena sudata e il fiatone. Il naso mi colava e ho portato una mano alle narici. Allora mi sono ricordato di quel pomeriggio sul finire del secolo breve e dei miei desideri di bambino. E mi resi conto che quel giorno avevo coronato quello che era stato un sogno d’infanzia.
Osservai la ragazza che mi aveva accompagnato lassù. Era seduta a un paio di metri da me. Il vento le scompigliava i capelli e le impediva il sorriso. Tentai di accennare qualcosa, ma non mi venne niente o forse il vento aveva più forza delle mie parole. In definitiva non avevo niente da dire. Non provavo niente. Solo un gran mal di gambe. Tirai su il naso e pensai: che gran fregatura, cazzo.
Da lassù potevo vedere tutta la mia valle. C’era anche la mia casa, laggiù. Ma non ebbi modo di trovarla.