Manuale semi-serio di viaggio: Valencia
Con le valigie pronte di fronte all’ingresso, ho cercato di coprire con uno sguardo fugace tutto lo spazio che per così tanti mesi era stato casa mia.
L’avviso che il caro Michel aveva attaccato alla parete qualche mese prima era ancora lì:
“¡Gracias amigos, viva la casualidad!”.
Mi era venuta in mente subito la canzone di Morgan, “un ultimo sguardo commosso all’arredamento e chi si è visto si è visto”.
Sono passati dieci anni e ci penso spesso, a lei.
Non so se sia per deformazione professionale, ma il rapporto che ho con le città che ho visitato è sempre molto forte, critico ed intimo. Le considero come persone con un carattere ben definito e alla fine mi rapporto a loro con amore, passione, odio o totale disinteresse. Scesa dall’aereo sono andata subito a mangiare qualcosa, orgogliosa di poter finalmente ritornare a fare lo switch sulla mia lingua madre
In questi termini, Valencia è la città di cui mi sono innamorata.
Ce ne sono tante altre di più belle, avranno da ridire i puristi del viaggio ovunque. Lo so.
Ma per quanto siate dei viaggiatori provetti, dovete ammettere che forse ce n’è una in particolare, che vi ha veramente lasciato il segno.
Era gennaio e dal finestrino dell’aereo scorgevo una giornata grigia. Io con le giornate grigie ho un particolare feeling ancestrale per cui quasi quasi le preferisco. È un benvenuto familiare.
Scesa dall’aereo sono andata subito a mangiare qualcosa, orgogliosa di poter finalmente ritornare a fare lo switch sulla mia lingua madre, così chiedo alla signorina al banco del bar “un bocadillo con una soda y un pitillo, por favor”.
Lei è rimasta a guardarmi interdetta. Mi dice “qua non si può fumare”.
E infatti io voglio bere.
Pitillo in Spagna è una sigaretta. A me serviva una pajita, dicasi cannuccia. Il mio spagnolo-sudamericano-bogotano avrebbe iniziato così una serie interminabile di scontri linguistici, che si sono ripetuti a cadenza quasi giornaliera per circa un anno. Ma le grandi storie d’amore iniziano proprio con dei ridicoli malintesi.
Posso cominciare dicendo che la prima cosa che mi ha colpita è stata vedere dal finestrino dell’aereo la Ciudad de las Artes y de las Ciencias dell’architetto Santiago Calatrava, ma è un’ovvietà per una studentessa Erasmus di architettura.
Perché la prima volta che sono atterrata lì era grazie a una borsa di studio Erasmus.
Poi sono ritornata più volte nei seguenti quattro anni. Quindi sì, ci siamo trovate molto bene Valencia e io.
La nostra storia però non riguarda soltanto posti frequentati unicamente da studenti che, per chiarezza confermo, non ho bazzicato granché neanche durante quel periodo.
Tutt’ora e nonostante siano passati dieci anni, alla richiesta di consigli io continuo a nominare più o meno gli stessi luoghi che ho apprezzato all’epoca e negli anni successivi. Molti sulla fiducia, perché non so se siano ancora lì. Posso senz’altro dirvi dove ho bevuto la miglior agua de Valencia nel 2006, ma tornandoci anche solo dopo un anno non sono mai più riuscita a ritrovare quel pub ingarbugliato tra i vicoletti del centro, così che alla fine mi sono arresa.
Ma sull’agua di Valencia ci sarebbe da scrivere un trattato. Se trovate un posto dove berla sappiate soltanto che bisogna aver mangiato molto bene prima e che la sensazione zuccherina e rinfrescante si rivelerà una trappola alcolica da cui scaturiranno ottimi video con i vostri amici, da non rivedere mai. Sono sempre lì anche loro, i Jardines del Turia, bellissima promenade di giardini dove prima sorgeva un fiume.
Sono certa invece che nella strada Historiadora Sylvia Romeu c’è ancora la Bodega. Un posto come tanti in città dove poter mangiare jamòn, bere vino e incontrare tante storie di personaggi variopinti da tutto il mondo. In quella bodeguita in particolare si riuniscono valenciani veri (è un quartiere non centrale) e stranieri, studenti e non.
Sono sempre lì anche loro, i Jardines del Turia, bellissima promenade di giardini dove prima sorgeva un fiume. A partire dalla fermata della metrò Alameda inizia la mia parte preferita. Con le diverse piante fiorite, gli alberi di agrumi, le fontanelle e il Gulliver gigante è tutto ciò che un’oasi di pace in una città caotica dovrebbe offrire. Non si va lì a fare i turisti e a camminare con mete prefissate e tempi stretti. Si va a ciondolare, a perdersi e a sottrarsi al tempo, lo smog e lo stress. Guardando i fronti che si affacciano da lontano e i ponti che attraversano questo anello verde, scoprirete i vari periodi architettonici della città, immaginando i volti che avrà avuto durante la sua vita come si fa con vecchie fotografie.
La paella e il vino bianco che ho mangiato e bevuto in diverse giornate di sole, seduta in un ristorante della Malva-Rosa, la spiaggia cittadina valenciana, mi tornano spesso alla mente (e al cuore). Quella è una zona che non ho mai ritrovato uguale negli anni. Mentre nel mio primo viaggio conservava una buona parte di quartieri gitanos, con casette bianche basse e vicoletti intricati alla maniera araba, inavvicinabili per i turisti, negli anni sono sempre incappata in nuove costruzioni “temporanee” per via del circuito di Formula Uno o per le regate della Coppa America o in un nuovo ospedale o in nuovi e tristi complessi di edifici razionalisti di edilizia popolare. E personalmente ritengo che in questi cambiamenti si sia sempre persa un po’ di anima.
Ma la paella è sempre lì.
Al ristorante Neptuno.
In centro, vicino a Plaza de la Reina, cercate l’Horchateria El Siglo. I migliori churros di sempre. E se i ritmi della vita e Tripadvisor non li hanno cambiati, li preparano solo d’inverno con la cioccolata calda. D’estate potete andare a bere l’horchata, una bevanda deliziosa di cui ignoro totalmente gli ingredienti, ma sulla fiducia confermo che è molto buona (e, una volta tanto, analcolica).
A sud, fuori dalla città, andate alla Riserva della Albufera. Capisco che in città si vogliano vedere musei e chiese antiche ma appena vi sederete in una delle passerelle in legno o farete il giro in barca, rimarrete incantati da quel lago e dai suoi colori. Vale la pena il tramonto e la vostra faccia distesa e rinvigorita, vale la pena perdere il senso del tempo a bere una caña (ma anche due,tre) chiacchierando.
Certo tutti questi posti sono stati resi belli dalla mia esperienza. Questa è la casualità di cui parlava il buon Michel nel suo bigliettino. Sono diventati speciali grazie ai personaggi che abitavano la mia vita in quei secoli là. C’erano Ramòn, un giovane vecchio valenciano ma tifoso del Real Madrid (e pare che queste cose definiscano per sempre la vita di una persona), il “lemur” Gonzalo, chef valenciano che preparava cene gourmet in cucine di appartamenti Erasmus improbabili. C’erano Neus e suo padre che una volta mi hanno invitato a pranzare nella loro casa di campagna, una casa di campagna classica spagnola come si conviene nell’immaginario di una siculo-colombiana. Il menù del giorno includeva una paella fatta sul fuoco a legna, vino rosato in quantità oceaniche e aneddoti sull’adolescenza di un ex-sessantottino spagnolo e ribelle, pieni di scene tutte sesso, droghe e rock&roll, ma da fan di Almodòvar non mi sono fatta sorprendere più di tanto (in più ero molto vicina al coma intestinale, quindi ricordo ben poco). E che siano le persone giuste al momento giusto collabora alla chimica dell’innamoramento.
C’erano Rumi la splendida napoletana a Valencia, Frank lo studente genovese tutto tatuaggi al di fuori di ogni logica umana e sociale, Marlon l’olandese vegetariano che ho visto ubriaco (e volante) una sola volta in un anno, dopo aver bevuto un bicchierino di una pozione terrona malefica chiamata limoncello. Il francese Michel (lui, il filosofo della casualità) e poi Antonio, Daniel, Amelia, Salvo Salvami, Silvia e tanti altri.
Vivere le storie delle persone che incontri in viaggio, anche se per un periodo molto breve, fa anche quello parte del fascino di una città. E che siano le persone giuste al momento giusto collabora alla chimica dell’innamoramento.
C’è tanto altro da dire su Valencia, ci sarebbe da scrivere sulle Fallas, San Juan, il Mercat. L’evidenza quindi è che ci sia ancora del tenero tra di noi, cose non dette, posti non visti, momenti non condivisi. Che ci serviva ancora tempo.
Ma la nostra storia è come quelle storie d’amore che non si compiono mai e rimangono perfette così. Chi vuole rovinare quel mondo ideale dove si è vissuto solo un breve tempo? Dov’è sempre stato primavera e voi avevate in tutte le foto quell’aria felice e rilassata? In fondo, abbiamo conosciuto il meglio l’una dell’altra e non siamo arrivate mai all’inevitabile crisi che porta il tempo e la conoscenza dei difetti altrui.
Nell’ottica di un mondo così vasto però, pensiamo a quanti nuovi posti sono pronti a sorprenderci con la stessa intensità. Questo è il bello del viaggio e della casualità. E chi si è visto si è visto, come canticchia il buon Morgan.