Deliziosamente cinici, senza perdere la dolcezza
Ci sono giornate che scorrono male. Non per suonare antipatica, ma immagino che capitino a tutti. Quando avevo vent’anni, queste giornate, che non definirei propriamente tediose, avevano un aspetto di spleen romantico, accompagnate dal sapore dell’acredine. Era una sensazione decisa, un’ineluttabilità di ferro. Oggi, all’appena accennata soglia dei trenta, sento di poter giudicare le ore di ozio non creativo come un tempo compresso in pochi e nudi bagliori. Quasi mai il tempo trascorso con sé stessi si rivela inutile, per il l’incessante lavorio introspettivo che esso comporta.
Era una sensazione decisa, un’ineluttabilità di ferro.
Eppure, mi piace molto meno tenermi occupata coi pensieri, inseguendone il moto oscillante come fossero i pesci di una boccia di vetro. Ho la sensazione che sia un modo per indugiare nell’autocompiacimento. I giorni che solo qualche anno fa erano perversi da intense malinconie – a loro modo, assai interessanti – sono oggi momenti di pacifica stasi e molto meno aggrovigliati. Il che deriva da una maggiore accettazione dei propri limiti, anche immaginativi e paranoici. Ma mi porta anche a credere di aver assaggiato “la divina indifferenza” agognata da Montale. Uno velo di distaccata ironia, che può trasformarsi in diffidenza talvolta. Certo, non è simpatico – in senso assoluto – essere diffidenti, ma può rivelarsi salutare.
Proprio ieri, in treno, una signora, un’impiegata di un ufficio legale, poneva un quesito di ordine morale alle sue amiche. Un aut-aut che ispira scelte paradossali e non lineari, come lo sono spesso le condizioni che influiscono, di nascosto, sul quotidiano. “Prendereste la stagista tontolona, con lo sguardo buono o quella più sveglia, ma che non sa trattenere frecciatine ironiche?”. Avrei detto la seconda, da come si era espressa. Come se fosse possibile ascrivere le capacità e il carattere di una persona a una sola qualità. Sono stata coinvolta nella conversazione, per la vicinanza di età delle ragazze coinvolte e perché mi ero sentita in diritto di origliare – era difficile non farlo visto il loro esagerato tono di voce. “Entrambe non hanno grandi competenze, hanno fatto lavori di pochi mesi, cosa vuoi che abbiano imparato”. Che cavolo. Ogni volta che ho tradotto per tre-quattro giorni mi è parso di aumentare la mia conoscenza in modo piuttosto significativo. La disponibilità a imparare è un atto volontario. Ma non l’ho detto. Ero più curiosa di capire se dalle mie parole sembrassi una persona perspicace che recita la parte dell’ingenua per compiacere l’interlocutore, come mi rimprovera mia madre. Ho difeso la “tontolona”, perché non mi andava di contraddire la signora né volevo sembrare presuntuosa, dando ragione all’arrivista, chiamiamola così. “La ragazza ingenua è anche più carina!” ha aggiunto la signora. “In uno studio legale, conta anche questo” ha confermato una sua amica. Ne convieni, Anna? Mi sono chiesta. Loro sono scese a Ferrara. Dopo due minuti, l’intera conversazione era evaporata dal mio sistema nervoso, con buona pace di entrambe le stagiste.
L’aspetto bizzarro di questo episodio è che un tempo ne avrei fatto una questione personale. Mi sarei innervosita per gli schemi binari buono-cattivo a cui le persone sono sottoposte e mi sarei identificata nell’ingenua, con accomodante fatalismo. Oggi mi chiedo se la signora non abbia dubitato della mia risposta. Me lo chiedo per come lei si soffermava sul mio sguardo – era buono, o no? Non me l’ha detto! Senza vergognarmi, metto in dubbio pure la sua scelta della stagista tontolona. E se me l’avesse detto solo per non contraddirmi? Se entrambe, in realtà, in un angolo non troppo remoto della nostra psiche, patteggiassimo per l’aspirante segretaria sicura di sé, ma provassimo fastidio a dirlo ad alta voce? Premiare le sue capacità (più spiccate, a detta della signora) vorrebbe dire tollerarne gli atteggiamenti?
Il dubbio implica un patto incerto con i fatti e riflette bene la condizione della provvisorietà, così pure dell’apertura e del tentativo speranzoso.
Il dubbio implica un patto incerto con i fatti e riflette bene la condizione della provvisorietà, così pure dell’apertura e del tentativo speranzoso. Meglio una prospettiva aperta, rispetto a una sorte prestabilita? Credo di volermi sottrarre ad essere incasellata in un ruolo che oscuri gli altri aspetti della mia personalità. Se in futuro lavorerò in simili contesti, mi serviranno pochi punti di appoggio interiori, e una impassibilità modulata, non silenziosa, ma nemmeno saccente, che ben si addice a una persona dubbiosa. Certo, questa consapevolezza mi rende un po’ meno romantica della ragazzina che fui, ma non mi dispiace.