Motta – La fine dei vent’anni
La fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo. Non devi sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio.
“Se ci pensi, tutti i nostri amici che si sono realizzati sono andati via. Siamo rimasti solo noi.”. Quella sera di tornare a casa proprio non ne avevo voglia, così ho aspettato che il mio amico finisse di lavorare per farci una fumata in compagnia della quiete notturna. Ascoltavo le sue parole, alternate a boccate di fumo da cui sembrava quasi poter vedere, nitidamente, lo stress della serata lavorativa defluire, mentre il mio sguardo percorreva un po’ pensieroso il piccolissimo piazzale davanti a noi, teatro da generazioni di momenti ricreativi di questo genere.
I posti per noi fumatori, occasionali o meno, sono tutti uguali: grigi, industriali, pieni di scritte di dichiarazioni d’amore e cazzi disegnati sui pilastri. Ma soprattutto, non ho mai capito perché, vicini ad una stazione dei carabinieri, quasi per sfida. Per fortuna non ci disturbano. Quanto alle scritte poi da noi ce n’è una bellissima: Annalisa ama Marco. Poi però il nome di Annalisa è stato cancellato dalla nuova ragazza di Marco che ci ha scritto sopra il suo: Francesca. Ma questo Marco deve darsi proprio un sacco da fare e anche il nome di Francesca è presto stato barrato, stavolta da lui stesso, che ha deciso di contribuire di suo pugno a questa sorta di genealogia relazionale su pubblica piazza con un “Sara ti amo!”. Quello è stato l’ultimo aggiornamento, ed io che mi ero ormai affezionato, mi chiedo come gli staranno andando le cose, a Marco.
Hai ragione amico mio, siamo rimasti solo noi. E chi tra noi sta meglio si sente fregato. Gli altri invece, non sentono più. Una perpetuata mancata percezione di poter fare della propria vita ciò che si desidera può avere effetti devastanti. Si smette di lottare, le proprie ambizioni vengono ridotte a semplici fantasie: si perde quel soffio di potenza generativa che la fantasia del bambino ha lasciato in eredità al giovane adulto perché ne facesse finalmente qualcosa di reale. Perché non puoi che perderlo qui. Perché siamo una generazione palesemente deputata ad essere l’agnello sacrificale per gli errori e le colpe dei nostri padri, gli animaletti rimasti schiacciati dalla schiena del mondo che, come un gigante sonnecchiante all’ombra di un albero, di tanto in tanto cambia lato su cui poggia.
Ogni grande cambiamento genera dei resti. I resti in questo caso siamo noi: i figli degli anni zero, creature antropologicamente diverse, anelli di congiunzione tra il mondo che è stato e quello che sarà. Potevamo essere una risorsa, una guida, un elemento di continuità identitaria nella discontinuità della storia. Ma si sono venduti la nostra voce e ci hanno fatto santi con una missione: sacrificarci. Sacrificarci perché c’è il conto da pagare, perché una pensione non la potremo avere, a meno di non ridursi come hanno fatto loro a mangiare il pane dei nostri figli, figli che tra parentesi molti di noi non avranno. E comunque nemmeno si può fare più, si è andati troppo oltre. C’è solo da fare tabula rasa. E si può fare, certo, ma costa una generazione: la nostra.
Amico mio, sono anni che ti dico andiamo via, e forse lo faremo, ma quanto sarebbe bello se almeno qualcuno ci chiedesse scusa. O ci dicesse grazie.
“Guarda, io spero che da mo’ a due anni anche noi riusciremo a realizzarci”. Speriamo, amico mio, speriamo…