Tutti i CAP della mia città
“Mi dà il CAP della sua città?”
La commessa mi guarda con fare interrogatorio, probabilmente vorrebbe tornare a sistemare il suo scaffale. Sui flaconi dei profumi sembrano disegnarsi all’improvviso piccoli spicchi di arancio
Fuori il sole picchia sui vetri, sui flaconi dei profumi sembrano disegnarsi all’improvviso piccoli spicchi di arancio e i raggi si riflettono nell’aria come diamanti. Io chiudo il portafoglio e le rispondo.
“Sì, 24100 no aspetti, 55047, no no 55100… ah sì, 55042.”
La commessa sbuffa.
“Ne è sicura?”
Come se da quella domanda dipendesse la mia esistenza.
“Certo, mi scusi ma ho vissuto davvero in molti posti.”
“Capisco. Firmi pure qui.”
Scarabocchio il mio nome sul foglio bianco e sottile, la commessa mi porge la tessera nuova, blu e lucida, riapro il portafoglio giallo e m’impossesso dei miei acquisti.
Ora nel sole ci sono io, la pelle abbronzata di primavera e gli alberi rosa in fiore. Ortensie verdi acerbe e non ancora sbocciate sono il vialetto della mia passeggiata, accanto a loro primule scure e chiare sono piccole piazzette di colori lungo i lampioni.
L’aria è un profumo di buono, pizze salate accolgono creme di gelati, profumatori d’ambiente si aprono insieme alle porte scorrevoli dei negozi, più avanti c’è odore di pizzi e merletti. Qualcuno getta della carta per terra, lo guardo infastidita mentre il fumo di una sigaretta mi arriva addosso e tossisco d’istinto.
Guardo la mia città e so quanto ormai le appartengo, ma quei CAP mi girano nella testa, i numeri si fanno ricordo di tutti i luoghi amati prima di adesso.
Come sono arrivata fin qui?
Per un attimo sembra complicato perfino a me stessa ricapitolarlo.
Alberto mi aspetta al bar di fronte.
Che cosa gli avrei detto?
Per un attimo mi sembra difficile perfino pensarci.
Mi ha appena trovato con lo sguardo, gli mando un saluto, dei piccioni gli stanno accanto e i sacchetti strusciano lungo la mia gonna plissé, vorrei fare una piccola ruota come se fossi una piccola bambina, eppure mi trattengo, saltello con i tacchi fra un marciapiede e l’altro e raggiungo Alberto.
“Eccoti!”
“Eccomi…”
“Ordiniamo?”
“Volentieri.”
Persone e camerieri ci girano attorno eppure il mondo mi sembra fermo.
Ogni incontro getta addosso un momento di blocco emotivo, ciò che eri contro ciò che sarai nel tempo, e in mezzo quel nuovo volto che ti sia appiccica addosso.
“Cameriere?”
“Sì? Mi dica.”
“Due prosecchi vanno bene?”
“Sì certo.”
Sorrido, le bollicine avrebbero pizzicato nella mia gola asciutta.
“Allora per me e la signora due coppe di prosecco. E una pizza, bella grande.”
“Sì, e con tanta mozzarella.” – aggiungo io, mentre il cameriere è quasi già dentro al locale.
Le persone che apprezzano il buon cibo portano un buon umore immediato, mi sciolgo nei suoi confronti e mi sento più a mio agio.
“Ma quindi tu di dove sei?”
Quella domanda mi avrebbe rincorso per tutta la vita.
“Quanto tempo hai a disposizione?” Guardo la mia città e so quanto ormai le appartengo, ma quei cap mi girano nella testa, i numeri si fanno ricordo di tutti i luoghi amati prima di adesso
Alberto scoppia a ridere e intanto arriva la pizza, sono le 18 e il sole non accenna a calare, con mani agili cominciamo a mangiare, come due sciocchi ci scottiamo ma anche quello ci sembra abbia sapore di felicità.
Mi parla di lui, della sua arte, dei suoi pochi viaggi, dei suoi progetti e, mentre le sue labbra sono sporche di pomodoro, io scopro la bellezza di una persona che si sta aprendo verso di me.
“Di te non vuoi dirmi proprio nulla?”
“No, non è questo. È difficile spiegare.”
“Non sono uno sciocco.”
“Lo so.”
“Però è difficile parlare di sé.”
“Già…”
Per la fame, le parole non sembrano bastare e ordiniamo un’altra pizza. I lampioni con il timer ancora invernale improvvisamente si accendono. Il mio cuore batte, fa paura confessarsi con qualcuno, siamo quel che siamo ma non sempre arriviamo agli altri per ciò che realmente proviamo.
“Sono di Milano, ma di quella città in me è rimasto molto poco.”
“E poi?”
“Poi. Poi ti basta considerare gli anni che ho e pensare che ho cambiato ben quattordici case.”
“Ca… caspiterina.”
“Bella censura.”
“Grazie. Ma non sei stanca di cambiare?”
“Un po’. Infatti ora sono qui.”
“Con me.”
“Con te.”
“Non so la tua storia, ma sicuramente tutta questa esperienza ti rende unica. Ti arricchisce.”
Intanto anche la seconda pizza è finita, entrambi guardiamo l’orologio, è giunta l’ora di riappropriarci della nostra vita fuori da quell’appuntamento, come ogni incontro c’è sempre un punto in cui si finisce per poi ricominciare più a lungo.
“Sei venuta a piedi?” il senso di me risiede in tutti i CAP delle mie città
“Sì.”
“Allora ti riaccompagno a casa.”
“Grazie.”
“Vado a pagare.”
“No Alberto, lascia stare.”
“Smettila, non esiste che sia tu a pagare.”
Gli sorrido, capisco che è inutile protestare.
In macchina accanto a lui continuo a pensare a quelle cifre, a quei numeri che per me hanno segnato gli indirizzi delle mie città.
Ci sono viaggi necessari e subiti, viaggi che spingono avanti e altri che riescono a mettere in luce l’importanza del presente, ci sono cambiamenti che allenano alla vita, così varia e imprevista e altri cambiamenti ancora che ti lasciano dentro il senso eterno di instabilità, quel lato precario della vita che tutti prima o poi crediamo di illudere.
Ci ho messo anni a capirlo, ad annullare la stanchezza di riflessione che comporta affrontare ogni volta un luogo diverso, ma il senso di me risiede in tutti i CAP delle mie città. Non so se questo come dice Alberto mi renda unica, eppure è ciò che sono e segna una traccia importante sulla mappa della mia vita.
“Sono arrivata.”
“A presto allora.”
“Grazie per l’aperitivo.”
Scendo dalla macchina, i tacchi sulla ghiaia sembrano chicchi di caffè che scricchiolano, Alberto mi guarda ancora, chiudo la portiera dolcemente e con il telecomando apro il cancello.
“Ah…”
La testa di Alberto ora spunta dal finestrino abbassato.
“Sì?”
“Spero davvero che questa volta resti a lungo”
Guardo il numero civico e gli sorrido, con la mano lo saluto e mi nascondo dietro il cancello.
Dirigendomi verso casa mi viene in mente una vecchia canzone di Baglioni:
“… Il telefono è questo, devo andare via, se ti va di chiamarmi sono a casa mia.”
Non so ancora quanto resterò qui, ho imparato a non proiettare troppo in avanti le versioni future, ma sono a casa, adesso e qui, e questo mi sembra importante, anche se il CAP della mia città l’ho nuovamente dimenticato, dietro il cancello, negli occhi di Alberto, sulla sguardo della commessa e nella mia tessera blu e nuova di zecca.