Come stai? La vulnerabilità del viaggiatore infermo
Continuiamo a parlare di viaggi. Negli ultimi post ho scritto di gratitudine, ma non ho spiegato a cosa è dovuto questo sentimento. Siamo riconoscenti quando percepiamo la gratuità nelle azioni di qualcuno nei nostri confronti. Se viaggiare è più uno “state of mind” che un vero e proprio spostarsi da un luogo all’altro, è proprio perché nel viaggio prestiamo attenzione a dettagli che nella quotidianità lasciamo cadere in secondo piano. Guardiamo dentro e fuori, sondiamo il mondo come se tutto fosse nuovo. Quante fotografie scattiamo a strade che, una volta rientrati, ci accorgiamo essere banalmente simili a quelle che attraversiamo ogni giorno? Le strade possono essere simili, siamo noi a cambiare. Anche per questo, la gratitudine emerge con più facilità nel viaggio, quando ci si sposta in solitudine da un posto all’altro e si ha la certezza di poter contare soltanto sulle proprie forze e possibilità. Tutto il resto è un di più.
La distanza che si crea fra una persona sofferente e il mondo è sottilissima
Ricordo la riflessione con M., nelle Azzorre, il giorno che le venne un mal di denti improvviso e lancinante proprio mentre ci spettava una giornata di lavoro nell’orto. La vulnerabilità che si prova nel viaggiare da soli e doloranti non ha pari: si diventa piccoli e fragili, ci si fa da parte per non disturbare quel mondo improvvisamente freddo, incurante, che pressato da mille scadenze deve scandire il ritmo di lavoro e non può fermarsi per recuperare un ferito lasciato indietro. M. non aveva detto quasi a nessuno di quel dolore, nei ritagli di tempo si metteva a cercare su internet informazioni per capire come comportarsi. Poi un giorno è sparita per cercare un dentista in quella città ignota e l’indomani si è di nuovo messa da parte, a lavorare mentre gli altri ridevano ad ogni battuta cretina per sopportare il susseguirsi monotono delle ore, a colpi di zappa, di sementi gettate nella terra, di andirivieni per trasportare concimi.
La distanza che si crea fra una persona sofferente e il mondo è sottilissima, un’inerzia esistenziale e improvvisa che impedisce di scavalcare il muro, che limita ad osservare chi sta fuori, ad invidiarne la normale condizione di forza fisica e di salute, le risate senza che la gola raschi, il canticchiare camminando senza sentirsi esausti, lo sgranocchiare un biscotto o bere un caffè senza nausea o dolori, le uscite di gruppo senza emicranie per il troppo parlare. Sradicavamo erbacce con M. quando lei aveva mal di denti e nessuno se ne accorgeva – o qualcuno sì ma sminuiva il dolore. Chi sta male risparmia anche le energie per dirlo, aspetta immobile che passi. Sono momenti in cui l’impossibilità di distrarsi fa riflettere a fondo sul senso di ciò che si sarebbe potuto fare ma che non si sta facendo a causa del dolore.
Si parlava, con M., di come la sofferenza fisica faccia a volte rimpiangere il calore di una casa dove le persone si interessano l’una dell’altra in maniera gratuita e senza bisogno di parole: era strano sentirci parlare, due orgogliose viaggiatrici che improvvisamente cedono a un tono campanilistico e nostalgico. Adesso penso che in fondo quello stesso calore si potrebbe ricreare anche al di fuori del focolaio domestico: basterebbe semplicemente ascoltarsi.
Ascoltare anche i silenzi, tutto ciò che non viene detto. M. aveva mal di denti, ma c’è chi il dolore lo nasconde nell’anima e nessuno glielo legge in viso. M. mi ha ringraziato per esserle stata vicina anche soltanto con un “Come stai?”, quando aveva mal di denti. Quando ho finito il mio viaggio in Turchia con due giorni di febbre, torcicollo e raffreddore ho ripensato a M. e ai nostri discorsi davanti alle erbacce nel campo di camomilla e ho capito che quel “Come stai?” significa anche “Non mi sono scordata/o di te, mi interessa il tuo benessere, se hai bisogno di qualcosa posso occuparmene io per te”. Ho capito che quel “Come stai?” può essere un approccio alternativo al riassunto della scaletta quotidiana di missioni da compiere. Certo, c’è modo e modo di chiedere “Come stai?”, c’è bisogno di restare attenti dopo aver posto la domanda, di voler sentire davvero la risposta di chi abbiamo davanti.
È un’emozione tenera, infantile, quella della vulnerabilità che si respira quando non si sta bene: ci riporta all’infanzia, al bisogno di qualcuno al nostro fianco che si prenda cura di noi. Nei casi più estremi, questo bisogno porta all’esagerata manifestazione del proprio malessere, oppure al contrario a seppellirlo e fingersi eterni supermen e wonderwomen. Ma se tutti tendessero l’orecchio un po’ di più per ascoltare la risposta, forse anche questi eccessi verrebbero meno, forse svanirebbe la paura di essere soli.