L’impercettibile barriera sociale
L’ostrica scivola sul palato lenta e piacevole, con il suo sapore la sento scendere potente prima nella pancia e poi in un viaggio all’incontrario dei sensi, umida e carnosa, si rifugia nella mia gola, con il guscio nella mano verso l’alto faccio un brindisi di mare con la sua acqua salina.
Tra me e la spiaggia c’è solo la barriera sottile dei tavolini del ristorante, qualcuno passeggia lungo il pontile, altri si siedono accanto agli schizzi della fontana.
Due pescatori sorreggono cestelli azzurri e canne lunghissime, sulle spalle una grossa rete e berretti di maglia blu sulla testa.
Nella sala interna del ristorante qualcuno fa festa.
Ci sono schizzi di ragazzi contro le luci della sera e genitori a flotte che cominciano ad accavallarsi all’ingresso con buste colorate e fiocchetti arricciati nel vento.
La serata è già di quelle calde, è un’immersione pura di primavera tra il velo della mia camicetta bianca e il giubbino nero delicatamente appoggiato sulle spalle, in lontananza le onde richiamano suoni di natura mentre qualche ragazzo fa suonare dal proprio cellulare tre musiche differenti tutte insieme.
“Posso portare ancora qualcosa?”
“Ancora due bicchieri di vino, grazie.”
La cameriera scompare nuovamente e ora sul pontile passeggiano anche due cagnolini tozzi, piccoli.
Il silenzio e la riservatezza, lo scambio intimo fra due persone, seppur momentaneo, così fondamentale per sentirsi colmati da una persona, sembrano prerogative di vita ormai superate, blindate dietro la nostra tecnologia
“Mi ha dato fastidio che ci abbiano fatto spostare.”
“Lo so, è sgradevole.”
E intanto butto giù l’ultimo fondo di vino bianco del bicchiere.
“Mai successo in questi anni.”
“Stanno cambiando clientela, questo è sicuramente un compleanno.”
“Non mancherà molto al gran baccano.”
“Speriamo di no.”
La cameriera ci porta altri due calici di vino e un cestino zeppo di sardine fritte, lei se ne va senza salutare e noi ficchiamo le mani dentro quel pesce tenero e caldo, lo affondiamo in alternanza prima tra le labbra e poi nella salsa di accompagnamento.
“Che buone.”
Io non rispondo ma annuisco con una faccia decisamente appagata.
I genitori dei ragazzini sono raddoppiati, è un via vai di gente che entra ed esce, urla di richiamo, di macchine lasciate fuori dai parcheggi e in doppia fila.
Due vigili sbucano improvvisamente davanti al locale e cominciano a fotografare una macchina in mezzo alla strada.
“Vedrai che multa che gli fanno.”
“E pensare che di parcheggi vuoti ce ne sono…”
“Cavolo!”
“Che succede?”
“Ho dimenticato di fare il biglietto.”
“Ah ormai è andata, per una sola infrazione vedrai che adesso le macchine le controllano tutte.”
Intanto il cestino delle sardine è vuoto già a metà.
Io e lui continuiamo a chiacchierare tranquillamente, è uno scambio diretto di impressioni e riflessioni, un rimando immediato e sincero di occhi che non si distraggono mai, seduti a quel tavolo stiamo dimenticando fotografie e cellulari per fermare quella cena nella mente, per evitare che i piatti si raffreddino nel vento in attesa di un momento perfetto in cui socialmente far vedere la nostra vita.
Al contrario di noi sembra che invece le stelle siano cadute dentro i cellulari, infinite quantità di luci di schermi accesi, persone che non si guardano nemmeno in faccia.
Ci sono piccole gare di fotografie:
Chi ha il cane più bello?
Il gatto più tenero?
L’animale più esotico?
Il figlio più fotogenico?
Ci sono brevi abbracci veloci, baci sulla guancia a dir poco sfiorati e poi vengono appoggiati i sacchetti e comincia un lavoro di mani e pollici in quei quadrati lucidi.
Il cellulare diventa contenitore essenziale di tutta la nostra esistenza.
Pubblico, condivido, immortalo e quindi sono, esisto.
Il silenzio e la riservatezza, lo scambio intimo fra due persone, seppur momentaneo, così fondamentale per sentirsi colmati da una persona, sembrano prerogative di vita ormai superate, blindate dietro la nostra tecnologia.
“Quanti anni avranno?”
“Non molti, credo.”
Guardiamo quei ragazzi più intensamente oltre il vetro che li racchiude nelle sale interne, macchie di felpe colate tra tavolini chiari e vassoi rossi.
“Ti rendi conto che hanno tutti in mano un cellulare?” io e lui ci sentiamo improvvisamente invasi dall’impercettibile barriera sociale che ci avvolge.
“Pazzesco. Il punto è che non si guardano neppure fra loro.”
“Io a mio figlio non lo permetterei.”
“Io il primo cellulare l’ho avuto a 8 o 9 anni, mi pare.”
“Davvero?”
“Sì, mia madre si sentiva più sicura. Effettivamente era utile.”
“A cosa?”
“Sapevo come raggiungerla in caso di necessità. Era un Nokia, non mi ricordo il nome ma chiamava, mandava sms e come giochino aveva il mitico Snake. Te lo ricordi? Non erano certo i telefoni di oggi.”
“Chi non se lo ricorda lo Snake. Forse hai ragione tu, ma così è troppo.”
“Decisamente.”
I ragazzi continuano a mettere musica, guardare film, aprire pagine, fare video.
Ognuno però lo fa nel suo spazio di angolo limitato, seduto, curvo su una sedia e i gomiti sul tavolo, lo sguardo annoiato e nessuno che si perda in chiacchiere con il festeggiato.
All’ingresso lontano da loro, i genitori sembrano fare le stesse cose, forse con gesti più lenti e meno vivaci, fino all’estensione che proietta il proprio cellulare.
Un papà viene dissolto da un gruppo di bambini che vogliono andare sulla spiaggia a vedere il mare, il papà protesta, si arrabbia con la mamma, dice che tutti quei bambini sono troppi da gestire, chiede aiuto ma nessuno lo gli presta attenzione, i bambini lo hanno già trascinato verso il pontile.
Vige un silenzio muto di conversazione, eppure ora tutt’intorno è solo rumore caotico e indefinito di gente sparsa, io e lui ci sentiamo improvvisamente invasi dall‘impercettibile barriera sociale che ci avvolge.
Dentro hanno iniziato a servire i primi piatti, qualcuno senza curarsi degli altri comincia a mangiare.
“Che dici, andiamo?”
“Sì”
Usciamo dal sentiero di tavolini a braccetto, poi lo fermo.
senza permettere mai di immortalare un solo momento perfetto e poi perdersi tutto il resto.
“Ti spiace se andiamo un attimo in spiaggia?”
E mi sorride.
Contro il mare della sera ora non c’è più nessuna barriera, la bambina di prima mi si avvicina contenta, sta giocando con la sabbia e ci guardiamo negli occhi, il flash della macchina fotografia del suo papà ci allontana lo sguardo e per un attimo rimango accecata.
“Dai, lo so che la vuoi anche tu la foto.”
E gli sorrido.
Mi metto in posa sullo sfondo del mare e guardo la bambina giocare, ci sono barriere che è giusto crearsi solo da una certa età in poi, come il cellulare, le fotografie, l’isolamento tra se stessi e un oggetto, senza permettere mai di immortalare un solo momento perfetto e poi perdersi tutto il resto.