Titoli di coda
La prima volta fu in un piccolo locale alla periferia di Napoli, fu mio zio a portarmi con sé. Vince’ gli spiccioli delle mance te li pigli tutti tu, poi se ci sai fare ti faccio fare pure l’intervallo coi gelati.
Da dietro la tenda sbirciavo ogni sera un film nuovo.
Ma il momento più bello era quando l’ultimo spettatore, spenta la cicca sotto le suole consunte, sputacchiava in un angolo e si lasciava alle spalle la sala buia e vuota. Restavamo solo io e i titoli di coda che scorrevano come coriandoli in un carnevale solitario. La passione dei finali mi è rimasta appiccicata addosso come un chewing gum, per tutta la vita.
L’occasione l’ho avuta appena zio è morto. Promosso maschera di sala. Ho avuto pure un aiutante per qualche anno, poi lo Stella ha chiuso i battenti. E io son andato in città. L’unica sala di Napoli a tenere una maschera era il Perlingieri, nella zona chic, lì ho staccato biglietti e accompagnato le signore ritardatarie con la mia luce fino al numero giusto. Niente più cicche, dal divieto in poi. Ora sto attento ai cellulari, che non diano disturbo agli altri.
Vince’ nel cinema c’e’ tutto quello che ti serve per campare, nun te puo’ sbaglia’, ci trovi ogni risposta.
Ora ho 70 anni e mi dicono di andare in pensione, che le maschere non servono più. Ma io la passione per i titoli di coda non la mollo. C’è tutto lì, non voglio dimenticare nessuno. Il mio film scorre sullo schermo fino alla parola The End. Io da questa poltrona, della mia sala, non mi schiodo.
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Il regista è un esordiente polacco che con metafora raffinata scalfisce il muro d’indifferenza che circonda la condizione di marginalità in cui sono relegate le lesbiche portoghesi attraverso il solo uso di una telecamera portatile, ad uso non professionale, ma il profondo messaggio, privo di dialoghi, non ha certo bisogno di mirabili tecniche. Venticinque minuti. Buona visione.
Volto madido di sudore e barba incolta, dimentico degli sberleffi subiti al liceo, Mario presenta adesso i film del cineforum del paese, nel faticoso tentativo di affrancarsi dalla fama di secchione che l’ha mantenuto vergine fino alla soglia dei trent’anni.
I cineforum sono sempre una rottura di palle incredibile.
Un cellulare all’improvviso squilla e il suo proprietario, uno così obeso da sembrare incastonato tra i braccioli, sapendo di averlo nel marsupio imbarazzatissimo si contorce su se stesso e lo avviluppa nel grasso addominale per attutirne la suoneria, proprio come un riccio che avverte il pericolo, mentre con l’altra mano cerca di disattivarla. Sta sudando più camicie di quante non ne abbia nell’armadio. Tutti lo guardano con immeritato disprezzo. Sicuramente se fosse stato magro ne avrebbe riscosso di meno. Il grassone fa sempre tante domande alla fine dei film, esibendo quell’aria intellettuale che è di fatto l’unica freccia rimasta all’arco delle sue speranze di far colpo su una ragazza, e sparando pertanto analogie con registi sconosciuti o forse persino inventati nella certezza di non poter essere contraddetto da un uditorio ancora più ignorante, e certo meno furbo, di lui. Forse questa volta, dopo la figuraccia, avrà il buon gusto di tacere.
I registi qui non sono mai venuti. Di polacchi dalla Polonia, meno che mai. Una volta s’aspettava con fervore l’arrivo di un menzionato a qualche festival marginale di Berlino, ma si seppe solo alla fine che era incappato in uno sciopero del traffico aereo e che avrebbe disertato la proiezione. Era quella volta uno spaccato sulla dura realtà dei raccoglitori di bambù in Cambogia. Il grassone la confuse con l’Indonesia, ma nessuno se ne accorse e non fu contraddetto.
s’accetta con disinvoltura ciascuno l’ignoranza altrui, nella speranza sempre ben riposta di riuscire, così facendo, a dissimulare la propria.
Ripresa. Cavalcando l’onda della protesta sociale dei minatori ucraini, il regista uzbeko, appena diciottenne, ha realizzato un cortometraggio che risveglia le coscienza e induce all’azione, prontamente censurato dalla mai del tutto estinta nomenklatura sovietica.
Il prologo mi ricorda l’Ulisse di Giois, argomenta goffamente il grassone centrando malissimo i tempi e confidando che dopo l’intervallo la figuraccia di prima sia stata ormai archiviata. Mario lo asseconda. Infatti, dice, è proprio a Ulisse che si è ispirato il regista.
Con buona pace di Ulisse e di tutta l’epica greca, naturalmente con Joyce tutto questo non c’entra nulla. M’addormento.
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