Intervista a Tino Van Der Sman
Primavera 2015.
Incontro Tino in un bar vicino a “las setas” di Siviglia.
Davanti a un café con leche (tanto bollente da durare tutto il tempo dell’intervista) facciamo due chiacchiere.
Vivi in Spagna da molto tempo, sei quasi più spagnolo che olandese.
Quanto rimane del tuo paese dentro di te e quanto spazio si è presa la Spagna?
Il tuo ruolo di chitarrista flamenco olandese, credi che ti dia delle sfumature in più, in meno, o non vuol dire nulla?
Vuol dire molto, assolutamente.
Sai, molti stranieri si sbagliano in questo senso. Anche io ho sbagliato: volevo trasformarmi in un flamenco andaluso.
Invece no, devi mantenere la tua essenza.
Se ti viene totalmente naturale essere flamenco andaluso, beh, allora va bene così, basta che sia naturale.
A me non viene naturale, quindi non lo voglio.
Ci sono delle qualità dell’Olanda che mi piacciono molto, altre no, quindi le ho messe da parte.
Della Spagna mi piace l’allegria e il prendere le cose con più calma.
Credo che ogni persona dovrebbe fare l’esperienza di vivere almeno un anno in un paese totalmente diverso dal proprio. Come la Spagna non ha nulla a che vedere con l’Olanda. Si impara molto.
Un teatro o una peña? Dove ti senti più a tuo agio, o meglio, dove puoi esprimere meglio la tua arte? L’ interpretazione e le sensazioni sono le stesse o cambia qualcosa se ci si esibisce davanti a dieci persone o cinquecento?
La quantità di persone non influisce molto. Puoi suonare davanti a dieci chitarristi ed essere più nervoso di quando invece stai in un teatro davanti a duemila persone che non conosci.
Per dirla tutta, potresti diventare nervoso per la presenza di un’unica persona.
Io mi trovo meglio in un teatro perché credo che le peñas, per quanto si possano dar da fare, non siano sufficientemente attrezzate per le esibizioni, a livello di microfoni e acustica.
Ma c’è da dire che quello che può nascere in una peña è difficile che nasca in un teatro: alcuni aspetti meravigliosi come l’olé, il jaleo…
Faustino Núñez in una recente conferenza a Cordova ha sottolineato l’importanza degli appassionati di flamenco stranieri, di quelli che non lo hanno nel sangue, dei turisti, per la sopravvivenza del flamenco e la sua diffusione.
Qual è la tua opinione a tal proposito e come vedi l’interesse dello straniero?
Il flamenco è nato grazie agli stranieri. I gitani, gli ebrei, gli arabi, i neri, gli schiavi.
Ce ne siamo quasi dimenticati ma c’è stato un periodo in cui a Siviglia c’erano moltissimi schiavi. Un 10% degli abitanti di Siviglia era formato dai neri, hanno influito molto.
Ora c’è un fenomeno simile, grazie agli stranieri il flamenco sta evolvendo tantissimo.
È già successo, ad esempio, con il trio jazz flamenco formato da Paco de Lucia, John Mclaughlin e Al Di Meola. Adesso sta succedendo la stessa cosa. Ad esempio in Francia scommettono molto sul flamenco, soprattutto su quello contemporaneo che coinvolge un lavoro di ricerca.
Israel Galván, Andrés Marín, Rocío Molina…
I festival stranieri, in generale, hanno un concetto di flamenco più aperto dei festival spagnoli.
Forse grazie alla Spagna l’evoluzione non va troppo veloce, ed è anche giusto, sennò si perderebbe la connessione con il pubblico.
Vivo qui a Siviglia da sedici anni ed ho assistito ad un’evoluzione pazzesca.
Prima c’erano pochi stranieri che si trasferivano qui stabilmente.
Ora con il flamenco vengono, si stabiliscono, si sposano… Rimangono qui. Vengono anche solo per studiare temporalmente, ma comunque la città cambia. Soprattutto l’Alameda e Triana.
Qual è il palo che più ti rappresenta e perché, e quale invece quello che ti risulta più estraneo, se ce n’è uno.
Non saprei.
Ci sono momenti in cui mi identifico con un palo, altri in cui ne sento un altro.
Chi rifiuta un palo o una parte del flamenco non può essere considerato un vero appassionato.
Il flamenco è tutto e se vuoi essere un vero appassionato e amare quest’arte devi abbracciare tutte le sue parti e tutti i palos.
A Casa de la Memoria per quali palos suoni più frequentemente?
Se suono per il baile, tutti i palos.
Può essere alegría, soleá por bulería, seguiriya.
Ma quando suono da solo non seguo i palos. Hanno un aspetto svantaggioso che è quello di limitare la tua espressività. Devi seguire un carattere, un ordine…voglio anche uscire da questi schemi.
Essere maestro e artista. In quale momento senti che stai dando di più all’altro, pubblico o alunno, durante una lezione o un’esibizione?
È una bella domanda.
Devo riconoscere che in generale quando do lezioni di chitarra sento che do di più rispetto a quando suono davanti a un pubblico.
Ma la volta in cui suono davanti al pubblico con quella generosità, con quel trasporto, do molto di più che all’alunno.
Sul palcoscenico non riesco a controllare questa generosità, varia molto.
A volte ce l’ho, raggiunge delle vette altissime, altre no.
Come professore invece mantengo la linea.
Il momento più importante e quello che più ti ha emozionato della tua carriera.
Quindici anni fa, credo, quando mi hanno chiamato per lavorare con Israel Galván alla Biennale di Siviglia. Mi ricordo il momento in cui mi hanno chiamato… è stato emozionante.
I tuoi maestri, coloro che ti hanno insegnato qualcosa che non dimenticherai mai.
Paco Peña, Gerardo Núñez, José Luis Postigo e Eduardo Rebollar.
Sono i quattro maestri che ho avuto, tutti diversi uno dall’altro.
Paco Peña mi ha dato la base del flamenco, la tecnica.
Gerardo Núñez mi ha dato apertura, mi ha insegnato il guardare oltre, il non essere rigido e l’uscire dagli schemi delle regole.
Eduardo e Postigo mi hanno insegnato ad accompagnare al cante.
Quali sono gli artisti che più ti piacciono della scena attuale del flamenco e con i quali ti piace o piacerebbe lavorare.
Andrés Marín, Israel Galván, José Valencia e Jesús Méndez.
Ma devo dire che non ho un sogno concreto di poter lavorare con qualcuno.
Sono contento con quello che ho.
Le emozioni che provi proprio prima di andare in scena e quelle che sorgono durante lo spettacolo e alla fine, quando tutto finisce.
C’è tensione, come è giusto che sia, ma l’importante è che questa tensione non sconfini in qualcosa di negativo, sennò ne risente l’espressività.
Quando suono mi piace aprirmi, godere della condivisione con chi mi sta vicino. L’espressività in questo modo cresce, ma non è detto che ci riesca sempre.
Quando suono da solo mi concentro invece sulle sensazioni, ma di nuovo, non è scontato che io ci riesca.
A volte la mente va da sé e ci si innervosisce… Varia molto.
Qual è secondo te il modo migliore per avvicinarsi al mondo del flamenco partendo da zero? Teoria, pratica o …?
Tutti e due.
Molte ore di pratica innanzitutto.
Bisogna studiare molto e saper stare in solitudine.
Teoria invece nel senso di ascoltare tanta musica, parlare con le persone, andare a teatro, andare nelle peñas, andare a tutti i tipi di eventi di flamenco.
La città che rappresenta la tua capitale del flamenco.
Siviglia, senza dubbio.
Ora sto registrando un nuovo disco e mi sono reso conto che sta venendo proprio sivigliano.
Io sono molto melodico e trovo che anche Siviglia lo sia.
Inoltre generalmente il flamenco è molto localista: a Granada sono molto bravi in una parte del flamenco, a Jerez de la Frontera in altre, ma Siviglia le unisce tutte.
Credo che Siviglia sia la città che rappresenti il flamenco più vario. O almeno, questo è il mio punto di vista.
Tradizione e modernità, dove ti collochi tra questi due poli, cosa pensi della scena attuale e cosa pensi degli “esperimenti”, della fusione di stili? Come vedi la presenza di altre musiche nel flamenco?
Mi piace la ricerca quando porta a nuove espressioni.
Amo anche la tradizione e non dimenticherò mai che è stata lei ad attrarmi quando ho scoperto il flamenco.
In genere ho sempre ascoltato e continuo ad ascoltare il flamenco più tradizionale, ma quando vado a teatro opto per cose più sperimentali, sento che mi danno di più.
Anche la tradizione a un certo punto stanca. Se l’hai già vista e sentita tanto, stanca. Bisogna quindi rinnovarsi.
Ma la tradizione e i tradizionalisti hanno un ruolo molto importante, quello di controllare chi va troppo veloce nella sperimentazione.
Lo sperimentare ha un ritmo, se si esce fuori da questo ritmo e si creano cose che non hanno né radici né alcun senso, allora non mi piace, si perde la connessione con il pubblico e con l’arte.
La difficoltà più grande del percorso che hai fatto fino ad ora?
Sono qui da molti anni ma io sono olandese. L’Olanda ha una cultura molto diversa rispetto alla cultura andalusa, che a sua volta è molto diversa da quella della Spagna.
Non posso ancora dire di averlo superato del tutto e devo dire che è uno degli aspetti più faticosi.
Un’altra cosa è il fatto di dedicare tutta la vita alla chitarra. È piacevole e gratificante, ma a volte è molto dura.
Qual è il tuo sogno più grande? Hai qualche progetto ancora in sospeso?
Ho vari progetti in corso: il mio nuovo disco, che è quasi finito, ed altri due che sto producendo.
Mi pongo sempre delle sfide: mi motivano e così creo voglia di lavorare.
Una persona non conosce nulla del flamenco. Quale disco gli presteresti per presentarglielo?
Dipende dalla persona.
Se è qualcuno che non vuole imparare e studiare veramente il flamenco ma solo conoscerlo e goderselo allora gli darei qualsiasi disco di Paco de Lucía e di Vicente Amigo.
Se invece è una persona che vuole imparare veramente gli darei gli stessi CD, ma ne aggiungerei qualcuno di cante. Credo che la base del flamenco si trovi proprio nel cante.
Quale disco di cante gli daresti?
Mi viene in mente un CD che ho consigliato a tante persone perché riunisce tante qualità. Per imparare è ottimo ed è un piacere anche goderselo nell’ascolto, così, semplicemente. Non è una combinazione che si trova facilmente.
Si chiama “Cante Gitano” di Rafael Jiménez el Falo. È stupendo. È un disco che ha circa vent’anni ma rimane il mio preferito, lo consiglio sempre.
“La chitarra sta cambiando e io ho un obbligo con la gente che mi segue di aprire nuovi campi” ha detto Paco de Lucía nel 1986…
La prima cosa che mi viene in mente è che Paco non aveva l’obbligo di fare nulla, poteva fare ciò che voleva, se lo poteva permettere.
Inoltre lo ringrazio infinitamente perché mi ha cambiato la vita. Quando è morto stavamo qui con vari amici e ci siamo resi conto del fatto che eravamo amici grazie a Paco.
Io sono qui grazie a lui, e non solamente io.
Grazie, Tino, per questa intervista.
Non perdetevi il video qui sotto per conoscere Tino Van Der Sman.