Il risarcimento (ode all’olio esausto e all’amore finito)
Un po’ di tempo fa me ne stavo a ciondolare per le vie della città come un pulcino abbandonato e affranto. Ero assai triste e credevo che il mondo fosse alquanto in debito verso di me. Pensavo che così non era mica giusto, che non mi ero meritato tutto ciò. Ogni tanto adocchiavo il cielo con aria di sfida. Bravo, continua così. Fatti i cazzi tuoi. Non ci pensare mai a me. Pensa agli altri. A quelli lì, si. A me no, mai. Con quello che ho fatto. Mi sono pure cresimato da bambino. Aiutami, cazzo. Mandami qualcosa e smetto di bestemmiare. Un aiuto. Un risarcimento, cazzo.
No, non era mica giusto. Calciavo i sassolini e godevo nel centrare i paraurti delle auto. Se ne avessi segnato la carrozzeria sarei pure stato felice. Tanto loro, i proprietari, erano più felici di me. Di gran lunga. Tutti erano più fortunati di me. E io ero molto arrabbiato. Un attimo prima ero più triste che arrabbiato, ma ora no. Ora ero più arrabbiato. Forse era merito di Gesù che non si era palesato, non mi aveva risarcito per la bastardata di cui ancora portavo le stimmate e così aveva finito per farmi incazzare. Meglio arrabbiato che triste. La rabbia scaccia la tristezza. Ma è un vulcano e sputa, guizza, zampilla, poi si ritrae nel profondo e lascia spazio alla melanconia. La rabbia sedimentata è malinconia. Peggio della tristezza.
Dalla melanconia non esci. Pensai di infilarmi le cuffiette nelle orecchie e far vibrare i neuroni. La musica, quanto può fare la musica. Quanto? Un cazzo può fare, un bel cazzo di niente. Se stai di merda stai di merda pure se i Clash ti sparano la rivoluzione nei timpani. E poi in quella situazione mi pareva come a voler gettare aceto sull’anima nel tentativo di sgrassarla dei ricordi. Ma non si fa così, chi cazzo te l’ha insegnato a fare così? L’anima non è una padella, i ricordi non sono sugo e la paglietta graffia. Dio se graffia. I ricordi c’erano e la vita era stata proprio quella che ricordavo. Così come la ricordavo. Ma era filtrata ed ora era passata
Mi infilai in un vicolo e misi una mano in tasca. Cercai il telefono, lo toccai, avevo le mani sudate. Avrei voluto prenderlo in mano, guardarlo, ma non potevo: un imbecille aveva preso la cabina di comando e deciso che il telefono non si tocca. Non si tocca? No, non si tocca. Perché? Perché può essere ci sia un messaggio, ma anche no.
Il risarcimento?
Sì, il risarcimento.
Dici?
Dico. Però non guardare. Non guardare per l’amor di Dio.
Perché non devo guardare?
Perché altrimenti rovini l’incanto. Metti che non c’è nulla? Spezzi l’incantesimo. Cazzo fai dopo? Sei un coglione se lo fai.
Ma allora…
Ma allora un cazzo. Aspetta. Aspetta. Tornerà. Ritorneràààà… Canta insieme a me: ritornerààà l’incanto e i fiori di lillààà e i ricordi saranno realtààààà….
Non lo guardai il telefono. L’imbecille aveva convinto la mia mano a farsi i cazzi suoi. D’un tratto sentii un dolore forte. Grande. Immenso. Il vuoto. Non c’è dolore più grande del vuoto.
Poi l’odore. Quell’odore. Gettai lo sguardo a destra e vidi una porticina sgangherata e socchiusa da cui provenivano frasi in siciliano e odore di fritto misto. E olio esausto. Odore di mare, di vacanza, di totani croccanti sotto i denti. Ricordi, fottutissimi ricordi. Gli odori sono fatti così, penetrano dal naso e rovistano in cerca di ricordi. Se li trovano te li sbattono sul muso e poi te la vedi tu con loro.
Poi non so dire di preciso che cosa sia successo. Forse l’imbecille che mi diceva di aspettare e di vivere in retromarcia si è fatto fottere dall’odore dei totani e dal meriggiare marino. O forse non era un imbecille, ma solamente uno che aveva paura. Del dolore e della solitudine. Ero io quell’imbecille, o forse era una parte di me ferita e umiliata che chiedeva un risarcimento per ciò che non era andato come avrebbe dovuto, per i progetti abbandonati, le vacanze al mare fatte e quelle sfumate, le case in affitto dietro le vetrine, i silenzi dopo l’amore, gli errori ripercorsi con il senno di poi.
Una parte di me. I ricordi c’erano e la vita era stata proprio quella che ricordavo. Così come la ricordavo, né più né meno. Ma era filtrata da sentimenti recenti, emozioni ancora pulsanti. Ed ora era vita passata, come passa l’odore di fritto misto se ti allontani dalla cucina del ristorante. Forse avrei meritato un risarcimento, ma l’avrei dovuto cercare altrove. Nel presente e nel futuro, magari. Guardai il telefono. Non c’era nessuna notifica ed era giusto così.
Era arrivato il momento di lasciarla andare. Mi era pure venuta una gran fame.