La salsiccia e la boxe
All’età di ventinove anni è accaduto qualcosa al mio viso. Parliamoci onestamente: a un certo punto l’adolescenza decide di andarsene per la sua strada e ti fa ciao ciao con la manina. I miei connotati si sono trasformati appena un attimo dopo.
Il mento è scomparso definitivamente dietro la linea degli zigomi. Gli occhi hanno smesso di tagliare l’orizzonte. Sono arretrati di qualche passo. Più o meno allo stesso modo l’attaccatura dei capelli. Un viso in ritirata su tutti i fronti, se non fosse per il naso, lì messo a protezione di una trincea che ormai fa acqua da tutte le parti. Un naso eroico, che comunque ha dovuto sterzare in direzione nord/nord-ovest come colpito da un pugno di Muhammad Ali.
Sono caduto al tappeto, in effetti, ma vi giuro che ero già in piedi quando l’arbitro contava il numero quattro. C’ho messo poco a capire che dovevo ricominciare a saltellare in fretta, a zigzagare, a ciondolare al ritmo sincopato degli scemi, per non prenderne troppe di legnate. Magari danzando all’indietro, sì, con la schiena a un millimetro dalle corde del ring. Non è una questione d’onore. In certi casi è meglio così, se l’avversario è Muhammad Ali.
Danzare all’indietro. Fare una finta a destra, andare a sinistra. Fare una finta a sinistra, andare a sinistra. Così ci si smarca, si tenta il tutto per tutto. Si prova a ingannare il destino. Poi alla fine capita che un altro pugno lo prendi di nuovo, magari ancora più forte. E ti rialzi al numero sette, ma ti rialzi pensando che la ripresa ormai va verso il gong: ce la puoi fare a stare su in piedi ancora quei maledetti venti secondi.
Comincia poi un’altra ripresa, è vero. E lì sarebbero cavoli amari. Ma il naso è già tamponato, gli zigomi già modellati. I tuoi connotati sono andati già a quel paese, che importa, cambieranno di nuovo. E tu hai imparato la lezione: sei già diventato un pugile esperto.
Ma ho sentito chiaramente dentro la mia testa che qualcuno ha urlato: sei di terra!
Benedetti i momenti in cui qualcuno o qualcosa si incarica di ricordartelo. Poi stare al tappeto qualche secondo può pure essere una buona scusa per fare i conti con se stesso. Magari si capisce finalmente di avere sempre desiderato, in fondo, una sola cosa: fare in santa pace il commercialista. Altro che titolo mondiale dei pesi massimi e chissenestropiccia di Muhammad Ali.
Questa storia che la vita è un incontro di boxe con il destino, mi pare di averla già sentita da qualche parte ma non mi chiedete dove. Ultimamente mi è tornata in mente dopo alcune prestazioni eccellenti del mio ruolo professorale. Cose da farmi valutare seriamente l’ipotesi di aprire subito un chiosco di panini con salsiccia e appendere i libri al chiodo.
Professore professore, non è che mi si sta accartocciando su se stesso e anche lei vuole abbandonarci sul più bello?
È vero: “accelerazione” si scrive con una sola “elle”. Le leggi di Norimberga furono approvate il 15 di settembre (non di novembre, è ovvio) e il verbo “consapevolizzare” non è l’invenzione di una studentessa particolarmente incline ai neologismi: esiste (per quanto inutilizzato), sta in discreta salute e ogni tanto compare in qualche verifica di filosofia. Bisogna farsene una ragione e tornare sui propri passi, fare finta di non aver capito bene, dissimulare per quanto si può, confessare apertamente il proprio vuoto di memoria, con qualcosa in più dell’eleganza di un somaro spiaggiato.
Con voi posso essere sincero finalmente: ho corretto un errore che non c’era, quella data non la sapevo, quel verbo mi sembrava piovuto da Marte.
Beh… direi di no. Ma la questione merita senz’altro un approfondimento. Mi sembra una bella domanda comunque, sa? Si vede che è stato attento alla lezione, bravo! Adesso comunque non rispondo, sarà che c’ho un vuoto di memoria passeggero, o forse ho capito male, mi sa che chiariremo meglio durante la prossima lezione, ora non c’è tempo.
Con voi posso essere sincero finalmente: ho corretto un errore che non c’era, quella data non la sapevo, quel verbo mi sembrava piovuto da Marte.
Sapete, mentre stavo al tappeto stavolta ho annusato una sola parola, sarà stato il sudore o il sangue o l’urlo compatto della platea circostante, sarà stato il conteggio che stavolta si è fermato al nove, sarà questa metafora agonistica della vita. Ma ho sentito chiaramente dentro la mia testa che qualcuno ha urlato: sei di terra! Sei impastato con la terra! Niente arie. Niente fuochi luminosi. L’hai capito? Fatto di terra! E questo è quello che ti salva. Non crederti più di questo. Hai del lavoro, c’è del lavoro da fare: diventare una buona terra. Essere terra buona è la cosa migliore che possa capitarti.