Se ne era andato un giorno qualunque di ottobre
Se ne era andato un giorno qualunque di ottobre, e a me sembrava naturale che se ne fosse andato.
Un amore che trova spontaneità nell’abbandonarsi è predisposto a scegliersi ma a non legarsi mai davvero.
La profondità di un rapporto richiede certezze anche quando per prima la vita stessa non ne ha.
Se ne era andato un giorno qualunque di ottobre, e mi pareva che fossi io ad averlo lasciato.
Io che non avevo dormito con lui la notte precedente, io che non avevo più carezze da donargli e nessuna rassicurazione da potergli trasmettere in un abbraccio.
Chi resta lo fa in silenzio, nella promessa dell’appartenersi
Quel giorno di ottobre non l’avevo rincorso.
Non l’avevo fermato.
Non avevo paura.
Non avevo nemmeno pianto.
Non l’avevo più cercato.
Così quando lui varcò il cancello di ferro grigio, senza nemmeno dirmi una parola, senza dirmi che se ne sarebbe andato, io non l’avevo neppure inseguito nello spiraglio di fermare quell’addio.
Appena qualche minuto dopo nella casa vuota guardai dalla finestra della mia camera l’ingresso esterno, ormai vuoto e deserto di lui.
Se avessi avuto gambe lunghe e non stanche, la forza di credere non tanto in lui ma in noi, il passo scaltro, la non noncuranza del trucco inesistente sul mio sguardo di mattino, l’indifferenza del pizzo increspato della camicia da notte, se avessi avuto tutto questo, forse, in una corsa a perdifiato, l’avrei amato tanto da raggiungerlo.
Gambe lunghe non ne avevo ed erano pesanti come piombo, ancora non piangevo e avevo paura di farlo, troppe volte ancora con lui, per noi, per una me che non pareva più se stessa.
E cosa potevo dirgli? Resta. io non l’avevo neppure inseguito nello spiraglio di fermare quell’addio
Ma quel resta non era nella testa , non nelle parole, nemmeno lungo il mio cuore.
Quel restare era rimasto incastonato nel sogno di noi, quel progetto a due che ora suonava un assolo.
Chi resta lo fa in silenzio, nella promessa dell’appartenersi.
L’abbandono è quello ad aver bisogno più di tutti di parole.
Quando ci si innamora accade e non c’è bisogno di dirselo, qualcosa in noi ha già sancito il suo per sempre. Ma quando ci si lascia c’è necessità di darsi un rimando di assenza, la resa della bandiera bianca nel vento, il perché la guerra è finita ed è persa e per farla ci si è ammazzati il cuore.
Invece non una parola stabilì il nostro addio di quel giorno di un ottobre qualunque.
Nessuno dei due aveva avuto il coraggio di dirsi che ci eravamo uccisi a vicenda, che avevamo scelto coscientemente di consumarci senza misura né pietà per noi stessi, esauriti fino al puro sfinimento.
In quegli istanti eravamo come un brandello di candela mancante del proprio stoppino, l’impossibilità di dirigere il nostro fuoco ormai lento, completamente denso della nostra fine.
Se ne era andato un giorno qualunque di ottobre, un giorno qualunque della nostra vita.
Gli eventi che sfiorano la tragicità della nostra esistenza non capitano mai in giorni importanti, si insinuano dentro un’ abitudine così nostra da strapparci di dosso il senso di stabilità che eravamo certi esserci creati in modo autentico.
Gli istanti dopo il suo addio mi parve di vederlo attraverso la porta nella totale assenza di pace nel suo cuore, lui tutto solo contro il sole, un uomo misero che aveva prima di tutto perso contro se stesso, la battaglia inerme di chi si abbandona dentro i nidi aggrovigliati del proprio io.
Si era fatto incarto dei fantasmi del proprio passato e aveva fatto vincere la paura su tutto il resto, paura di essere se stesso, paura di non sapere chi fosse, paura che proprio io potessi continuare a farglielo capire, con o senza di me accanto.
la resa della bandiera bianca nel vento, il perché la guerra è finita ed è persa e per farla ci si è ammazzati il cuore
Intanto ero scesa in cucina, la mano ferma di chi attraverso il corpo conduce elettricità ma non tensione, la banale sensazione che nulla fosse, ancora, cambiato.
All’improvviso era come se qualcuno mi avesse liberato da un galera di cui rischiavo di voler continuare ad essere schiava.
La libertà comportava rischi e solitudine e sbagli e farsi verità di se stessi, e rimanere legati a qualcuno, qualcuno di inadatto alla propria vita, era comunque uno scudo di fronte all’essere sola e inerme.
Così, dopo che se ne era andato in un giorno qualunque di ottobre, la prima sensazione che provai fu quella di stare vivendo una grande liberazione.
Fu per quello che non avevo avuto voglia di seguirlo fino alla stazione, non potevo rischiare di vederlo salire sul treno, che se sola dovevo stare, sola volevo esserlo il prima possibile, la mia vita in solitaria doveva iniziare senza di lui.
Nessuna immagine di noi due divisi eppure ancora insieme, solo io che dopo di lui continuavo a vivere, forse ancora più intensamente di prima.
L’ora dopo la sua partenza mi aveva scritto per dirmi che mi amava e che l’aveva sempre fatto, io l’unica con cui avesse condiviso l’esperienza di ciò che era l’amore, dei nostri abbracci sinceri e spontanei, in cui si era sentito a casa e che sempre ci sarebbero appartenuti, nonostante da quel momento non sarebbero ma più avvenuti.
Forse a suo modo mi chiedeva di tornare, ma io lo lasciai andare.
Sentivo che l’unica a restare dovevo esser io.
In un giorno qualunque di ottobre me lo immaginavo a scrivere quelle parole, che per quanto assurde e incoerenti con la situazione erano sincere, me lo immaginavo con la paura negli occhi dietro un paio di occhiali da sole che gli avevo regalato io, chissà quali e di quale colore, a chiedere il biglietto del treno ad un controllore nel riflesso di un vetro sporco, sapendo che in quel biglietto c’era scritta la destinazione per la nostra fine. In un giorno qualunque di ottobre a me importava sola ritrovare le chiavi di me stessa, e aprire nuovamente, ancora, il mio cuore
Pensai alla paura di tornare alla sua di casa, e la polo verde non stirata.
Pensai che gli sarei mancata, e che se ne sarebbe pentito.
Pentito come se lui poteva essere, bambino, vittima e carnefice di tutti gli sbagli commessi.
Pensai alla fragranza di abbandono che ci avrebbe travolto entrambi, ognuno con il suo addio personale da celebrare.
Seduta da sola nel letto presi atto che spesso l’amore ha un prezzo troppo faticoso per poterlo vivere e che lui dalla sua intima galera non sarebbe mai uscito, nemmeno per me.
Per molti anni gli era stata costruita una gabbia addosso e poi con me, improvvisamente ne era uscito, aveva trovato al mio interno le chiavi per aprirsi verso una libertà che poi lui stesso si era negato.
Lui in un giorno qualunque di ottobre quelle chiavi le stava buttando via, lontano.
Si era rinchiuso nella sua cella ed io ero rimasta all’altro capo della libertà, sotto la vastità del cielo che da sola pareva, appena un poco, più pesante.
In un giorno qualunque di ottobre, ancora, c’erano le sue impronte sui bicchieri sporchi nella cucina, una macchia di sudore delle sue mani sulle ante di legno, i peli ispidi della sua barba incastrati nel fondo del lavandino, il suo deodorante quasi finito su una mensola in disordine, fili di capelli scuri sul cuscino chiaro e alcuni, ancora, sui miei vestiti, oggetti portati via con estrema scelta e cose lasciate in giro a caso, una sua maglietta nera finita con i miei vestiti da lavare, un mazzo di carte australiane con cui avevamo giocato qualche sera prima, biglietti da visita sul comodino di posti visitati insieme, una pastiglia di aspirina che lui usava prendere di frequente.
In un giorno qualunque di ottobre lui era, ancora, lì.
In un giorno qualunque di ottobre a me importava sola ritrovare le chiavi di me stessa, e aprire nuovamente, ancora, il mio cuore.