I “libri che parlano di” sono un’arma a doppio taglio
I “libri che parlano di” sono sempre un’arma a doppio taglio, un po’ come la parola “integrazione”. Ho fatto questo collegamento quando, la settimana passata, mi è stato chiesta la mia opinione in merito, appunto, al concetto di integrazione. Che suona così bene e che appare, a primo acchito, così armonioso che quasi ci si dimentica quanto, in fondo, integrarsi non sia in origine altro che una variante del verbo “sottomettersi”. Con velature meno radicali, certo, ma comunque con quella stessa accezione. Stessa cosa vale per quasi tutte le libere iniziative di italiani che prendono la penna e decidono di raccontare la storia altrui per sensibilizzare i propri compatrioti. Intenzionalmente o meno, si appropriano della storia altrui, espropriandone i legittimi proprietari. La cosa più brutta è che è un rischio, questo, che spesso si deve correre per avviare un processo che, alla fine, porti i soggetti direttamente implicati a raccontare con la propria voce la propria storia. Lo si è fatto fin troppo raccontando in prima persona storie di migranti disperati che non siamo né siamo stati noi o i nostri familiari, cadendo troppo spesso in un moralismo retorico che stanca presto. L’antropologia ci spiega che è impossibile osservare rimanendo totalmente fuori dal quadro umano che si osserva, allo stesso modo è impossibile comunicare ad una realtà l’invito a raccontarsi senza storpiare in qualche modo il suo racconto.
Tutto questo per dire che l’obiettivo di Antonio Manzini, autore di “Orfani Bianchi”, edito da Chiarelettere, non era certo dei più semplici da raggiungere: raccontare la storia di una donna moldava e il fenomeno dei cosiddetti “orfani bianchi”. Difficile dire se ci riesca o meno, se sia più o meno giusta la sua scelta di fingere che l’inglese sia lingua trasparente e usare quindi una storpiatura tutta italiana quando a cantare le canzoni di star internazionali sono donne straniere, quasi a caricare il loro personaggio grossolano. “Orfani bianchi” è un libro che ho letto perché profondamente interessata al tema delle donne dell’Est che, per curare le nostre generazioni che se ne vanno, abbandonano le loro nuove generazioni che crescono. Lo ho letto perché il titolo è il più diretto per chi cerchi una lettura sul tema, l’ho cercato perché mi interessava il fatto che uno dei principali autori contemporanei italiani decidesse di uscire dal genere di narrazioni in cui siamo soliti trovarlo per affacciarsi su un orizzonte nuovo. Dopo la lettura posso soltanto confermare la mia idea iniziale: non è semplice raccontare una storia potente nella sua complessità, se questa non ci appartiene fino in fondo. Manzini ci ha provato e, come spiegavo poc’anzi, il suo è un primo passo importante. Non tanto perché è il primo a parlarne – non lo è – , quanto perché ha un grande seguito e il suo diventa un gesto, oserei dire, politico. Di tanto in tanto però si ha la sensazione di cercare qualcosa di profondo ma di andare a sbattere contro un muro. Manzini sa scrivere, e mentre racconta la storia di Mirta lo conferma, facendo entrare il lettore nella sfera privata della vita di questa donna coraggiosa. Per chi non sa nulla del fenomeno degli orfani bianchi, probabilmente la lettura sarà scoperta di qualcosa di terribilmente attuale – ragion per cui non starò qui a far cenno alla trama e all’origine della definizione. Però, questo resta, i “libri che parlano di” sono sempre un’arma a doppio taglio.