In pista
5’30” al chilometro, devo scendere a 5’ e farne altri tre. Poi ho finito. Sudo poco, respiro regolare, dalla linea di partenza aumenterò il ritmo. Tre chilometri già fatti, ne restano altri tre. Per oggi sei potranno bastare. Quand’ero più giovane ne facevo pure tre e mezzo in dodici. Il tempo passa e si fa sentire. E pensare che allora fumavo e adesso neppure quello. Si chiama test di Cooper, e solo se l’hai fatto una volta nella vita sai cosa vuol dire. Se non sei allenato non lo superi.
Calpesto la linea bianca, guardo l’orologio. Altri quindici minuti. Do fuoco alle gambe. Il respiro si fa più intenso. Punge una spina al fianco; capita quando non sei bene allenato. Si deve resistere, passa da sola. Inizia la curva. Devo fare otto giri di pista. Il tempo è sereno, si comincia a avvertire il primo freddo della sera. Le luci gialle dei lampioni stradali rischiarano un giorno che non ha ancora cessato di esistere. Si preparano a illuminare la notte.
Passano in mente cose, mentre si corre. Cose, diverse, distinte, confuse, appassionanti, costanti, incoerenti. Chiodi fissi e ispirazioni improvvise.
Cinque per quattro venti, mancano due chilometri esatti. Dieci minuti. Chissà con un caccia dove si arriva in dieci minuti. Tre volte la velocità del suono, quindi a occhio e croce in dieci minuti 600 chilometri. Il fiato si fa sentire. Cadenzo il ritmo. Inspiro, espiro. Mi bilancio. Passa come un razzo, avrà vent’anni. Ritmi forsennati, da atletica leggera. Uno di questi non lo raggiungerei mai. Prima che io abbia finito mi avrà doppiato. Quattro giri ancora. Niente sguardo all’orologio a questo giro.
Ce la sto mettendo tutta. Pensare che c’è chi corre anche senza gambe, come gli atleti paraolimpici. Gente che non si arrende mai. Arriva, si monta le protesi e via. Il ritmo sta scemando. Non devo cedere. Ancora mezzo giro e guardo l’orologio, ogni due è un momento della verità. Sotto un certo ritmo non sento più il vento tra i capelli. Riprendo fiato. Riecco il vento, guardo l’orologio: meno tre secondi. Tra mezzo giro inizia l’ultimo chilometro. Che sarà mai un chilometro. A questa velocità saranno circa seicento passi. Una volta ho provato a contarli. Stavo impazzendo, non ci sono mai riuscito. In mezzo, provano i salti. Iniziano gli ultimi mille. Respiro. Uno, due. Spingo le suole contro la pista, alzo le gambe, le sento rispondere bene. La collana che indosso sbatte sopra la maglietta. La metto sotto. Ogni gesto quando sei stanco ti scompensa. Una volta ho trovato dieci euro in pista. Non li ho raccolti. Il giro dopo erano ancora lì. Se corri l’obiettivo è terminare. Non ti puoi fermare. Ultimi due giri.
Cinque per quattro venti, mancano due chilometri esatti. Dieci minuti. Chissà con un caccia dove si arriva in dieci minuti.
Trecento metri. A terra ci sono macchie di sangue.
Qualcuno sarà caduto. Da piccolo cadevo sempre, per anni avrò convissuto con le ginocchia sbucciate e con le croste che si rinnovavano di continuo. Quando stavano per cadere cercavo di levarle con la mano. La pelle sottile e bianca che da sotto emergeva era fragilissima. Talvolta si rompeva e ne usciva una goccia di sangue rubino. Nuova crosta sotto la crosta vecchia.
Duecento. Di velocità è la gara più sfiancante. Una roba eroica. In fondo, che fretta c’è. Tanto correre non giova a niente. Ecco, magari Bolt l’autobus lo raggiunge di sicuro. Finito. Pari col tempo. Adesso doccia, con l’allenamento se ne riparla giovedì.
Lascio il campo alle ragazze delle scuole.
mm
Ci risiamo. Ogni anno mi dico di lasciar perdere e invece no, ci ricasco. Veronica saltella da una gamba all’altra, la coda di cavallo le sobbalza fra le scapole magre. Ha una maglia tecnica color fucsia. Chi si veste di fucsia è sicuro di sé. Lo so che mia nonna riteneva il verde il colore della bellezza ma io so che si sbagliava, non conosceva Veronica. Io sono quella dei grigi in tutte le sfumature, e da qui non si esce come da una pista in cui si fanno giri di corsa all’infinito.
Con la coda dell’occhio scorgo Veronica che sogghigna. È certa di vincere ancora.
Dieci millesimi di secondo. Un soffio di vento fra i suoi capelli, una mano invisibile che la trattenga per la coda, solo un centimetro dietro di me. Cinque anni che provo a batterla. Sembrano soldi fra la polvere, uno scherzo o chissà, non devo lasciarmi distrarre. Recupero concentrazione e forze. Qualche manciata di millesimi, non chiedo mica un secondo intero! Il tempo ha due dimensioni, e forse più, una esterna dettata dal cronometro e una interna, questa la detta la mia paura di perdere ancora. Io sono ferma dentro, bloccata a quell’istante in cui mia sorella, l’atleta più forte della scuola, la più bella, la più brava, ebbe l’incidente. Tutti ne parlarono a lungo, mentre io volevo solo dimenticare, il rosso sul rosso, in pista.
Respiro. Una goccia di sudore mi scivola in bocca, è amara. Il colpo della pistola. Forse hanno ucciso qualcuno o forse siamo partite per la gara. A terra mi sembra di intravedere sangue, chiazze astratte. L’incidente. Lei, la figlia perfetta, l’atleta migliore. Tre due uno. Quanti giri ancora? Dolore che stira le gambe come un elastico teso all’estremo. Le facce dagli spalti si susseguono vorticosamente.
Di fianco a me soltanto un’ombra fucsia che corre. Il fucsia vince sempre, il grigio mai.
Ultimo giro. Il fucsia è appena dietro di me. Il coach strabuzza gli occhi e urla verso di me. È finita. Le compagne arrivano alla spicciola e spennate dallo sforzo come uccellini si accorpano attorno a me. Il grigio ha vinto. Soltanto mio padre dagli spalti affollati dai genitori sembra non essersene accorto, ha gli occhi al cielo. Per lui non è il grigio ad aver vinto né il fucsia ad aver perso. È azzurro, solo l’azzurro che vince. Lo vedo sorridere dopo tanto tempo.
fm