Sillabe mancanti
Nell’ombra del mattino, le mani sotto la coperta cercano di aggrapparsi al calore. Le sillabe labili del sogno si confondono, ampliando la distanza fra il materasso su cui sono stesa e il luogo remoto dove sto ascoltando un discorso sghembo. Forse sto gridando, ma i suoni sono come costretti dentro una bolla opaca.
Al mio risveglio, non sono capace di sopportare lo stato di pigrizia nel quale scivolo velocemente dopo essermi lavata il viso e vorrei urlare fino a scoppiare. Non dipenderà da qualche mancanza risalente all’infanzia, chi me lo saprà dire. O è il riflesso del vociare del sogno, della frustrazione per non essere riuscita a cogliere il messaggio della voce? Inseguo per qualche minuto le ombre sfuocate delle mie congetture. Voglio assolvermi. Dimenticare subito questo sforzo.
Erano le lettere di un nome, un metro di misura. Erano una statua da onorare, appena sfiorata con il pensiero. Fatico a pronunciare la parola “voglio”, oscillo con passi maldestri verso la cucina, faccio roteare la scodella con la grazia scoordinata dovuta all’ansia. Abbia inizio un’altra giornata nella quale mi guarderò crescere le unghie, cucinerò dando un significato cognitivo ed affettivo alla verdura e alla carne e piangerò. Farò la cernita delle parole, le tratterò con parsimonia. Ignorerò i miei errori sui tempi della cottura, poiché non mi interessa far colpo su me stessa, coi miei piatti.
Al pomeriggio, mi siederò al computer contro le mie vittime, secondo una lista segreta. Non importa da dove inizio. Di solito, seguo uno schema basato sulla stessa invettiva. Nessuno legge mai ciò che scrivo, ma questo non è importante. Anzi, è un bene. Infatti mi risparmia dalle denunce. Spesso sono morti, quelli che non sopporto, sono morti con disinvoltura.
Nelle orecchie, conservo echi di pianto, che la notte irridono il sonno. Ci sono appunti cancellati, fiamme esaurite, baci che ho allontanato da me. Non ho occhi nuovi, né cerco una prospettiva che annulli la mia reclusione e sfido la libertà muta dello schermo del computer. La mia rabbia è un grappolo di affermazioni glaciali, irremovibili e comprometto il mio nome, per essa. Ma del resto, ogni spina ha la sua rosa.
In un cassetto, conservo un mazzo di fotografie che il tempo ha reso irreali. Ero felice, e tu con me. Ora, il solo piacere è tutto il nulla che non mi sazia. Ogni tanto, riesco a fingere di sorridere e sconfino altrove, in un mondo dove le paure non sono reali.