Intervista a Rafael Campallo
Primavera 2015. Rafael Campallo ha appena finito la sua prima esibizione nel tablao di Casa de la Memoria. Riprende fiato un minuto, continua a taconear e cominciamo subito l’intervista.
Interpretazione solista o in compagnia? Sul palco meglio solo o con un altro bailaor/a o bailaroes/as? In quale occasione puoi esprimere al meglio la tua arte?
La relazione con i tuoi fratelli a livello artistico è unica o credi che potresti incontrare o già conosci altri artisti con i quali ti senti perfettamente in sintonia? Quanto influisce il sangue in un’esibizione?
Per me non c’è paragone tra quando sto con i miei fratelli o quando sto con altra gente.
Ho lavorato con Tomatito, con Vicente Amigo, con Eva la Yerbabuena, con Antonio Canales, con Israel Galván, Mario Maya, Manolete … Ma salire sul palcoscenico e guardare negli occhi tuo fratello o tua sorella. Ci sono cose che non …
Rafael Campallo si ferma qualche secondo, non gli vengono le parole dall’emozione.
Il sangue è il sangue. Può venire chiunque, anche il migliore, ma non avrò lo stesso sentimento che provo con i miei fratelli.
Quando li vedo sul palcoscenico l’unica cosa che spero è che non sbaglino, che sbagli io piuttosto. Se qualcuno deve sbagliarsi, che sia io. Se qualcuno deve dire qualcosa che la dicano a me. Che nessuno li tocchi. Perché no, è più forte di me. È chiaro, io ho vissuto dei momenti molto belli, con grandi artisti, milleduecento persone che si alzano in piedi alla fine dello spettacolo. Ma uscire e vedere il volto di tua sorella, di tuo fratello, be’, io posso morire tranquillo.
Il rispetto e l’ammirazione che provo nei confronti degli altri artisti continuo a provarlo sul palcoscenico. Ma è chiaro, alzarti tutti i giorni e vedere i tuoi fratelli, con così tanti ricordi e così tante cose. Credo sia una risposta ovvia. La mia gente è la mia gente, gli altri sono compagni e amici e voglio loro un bene enorme, ma non si può paragonare.
Un teatro o una peña? Dove ti senti più a tuo agio, o meglio, dove puoi esprimere meglio la tua arte?
L’interpretazione e le sensazioni sono le stesse o cambia qualcosa se ci si esibisce davanti a dieci persone o cinquecento?
Al bravo artista in fin dei conti piace ciò che fa, ovvero ballare. Ci possono essere dieci persone, venti, cinquecento, duemila. Se ti piace ciò che fai, nel momento in cui suona una chitarra o il cante, già sei pronto per poter eseguire ciò che ti piace.
Teatro o peña? Sono differenti.
In un teatro puoi utilizzare più scenografia, puoi far passare delle cose speciali. In una peña, avendo la gente a un metro e mezzo da te, o ti sforzi, o si vede che non fai nulla.
Faustino Núñez in una recente conferenza a Córdoba ha sottolineato l’importanza degli appassionati di flamenco stranieri, di quelli che non lo hanno nel sangue, dei turisti, per la sopravvivenza del flamenco e la sua diffusione.
Qual è la tua opinione a tal proposito e come vedi l’interesse dello straniero?
L’interesse dello straniero c’è da sempre. Immagino che fino a che il flamenco continui ad evolvere ci sarà sempre più gente a cui piacerà.
Sopravvivere? Non so cosa intenda dire esattamente con “sopravvivere”. Il flamenco c’è da sempre e da sempre c’è stata gente straniera a cui è piaciuto, che ha ballato, cantato e suonato. Non siamo mai “sopravvissuti”. Sopravviviamo di quest’arte muovendoci da un lato all’altro. Il flamenco è un’arte che si mantiene da sola, non c’è bisogno di nient’altro.
È chiaro che noi balliamo affinché la gente lo veda e lo possa assaporare. Ma sopravvivenza, come dice lui, no.
C’è gente che si dedica veramente al flamenco e gente che vuole solamente creare teorie a riguardo.
Qual è il palo che più ti rappresenta e perché, e quale invece quello che ti risulta più estraneo, se ce n’è uno.
Nel flamenco c’è sempre questa abitudine di assimilare un artista a un palo. A me è sempre piaciuto molto ballare por taranto, por tango, qui a Casa de la Memoria lo faccio molto.
Palos che mi risultino strani, no. Ho ballato tutto. Non ho tralasciato nessun palo del flamenco. Tutti i palos che si possono ballare o eseguire con il baile io li ho fatti.
Essere maestro e artista. In quale momento senti che stai dando di più all’altro, pubblico o alunno, durante una lezione o un’esibizione?
Nella performance chiaramente dai tutto. Io nelle mie do il duecento percento delle mie possibilità, perché deve essere così, perché credo che a quest’arte si deve questo.
Come maestro quando insegno non pretendo di insegnare alle persone come ballo io. Il maestro deve guidare l’alunno, per fare in modo che quando tu non ci sei lui possa avere materiale, possa lavorare. È inutile dargli la coreografia e basta.
Il momento più importante e quello che più ti ha emozionato della tua carriera.
Sono stati tutti momenti importanti.
Nella mia carriera, ora come ora non riesco a risponderti. Ho fatto talmente tante cose! Per me è stato tutto molto positivo nella mia vita, come persona e come artista.
I tuoi maestri, coloro che ti hanno insegnato qualcosa che non dimenticherai mai.
Manolo Marín mi ha insegnato il sapersi lanciare sul palco, il sapersi muovere, il correggere la schiena, lo sfumare i piedi.
José Galván mi ha insegnato ciò che può imparare un ragazzino di dieci anni quando inizia. La collocazione basica, il piede. Ho avuto anche altri professori, ho lavorato molto con Mario Maya.
Tutti i maestri e tutti i bailaores hanno dato qualcosa al mio modo di ballare.
Quali sono gli artisti che più ti piacciono della scena attuale del flamenco e con i quali ti piace o piacerebbe lavorare.
Quelli con cui mi esibisco sono quelli che mi piacciono, come Jeromo Segura, Jesús Corbacho, Javier Rivera. Sono compagni che ho visto anche cominciare.
Come Jeromo, che sta dimostrando quanto vale. Sono ragazzi che stanno dando tutto e nel futuro sfonderanno.
Le emozioni che provi proprio prima di andare in scena e quelle che sorgono durante lo spettacolo e alla fine, quando tutto finisce.
Emozioni no. Prima di salire sul palco ci sono nervi incontrollabili. Nervi di molta diffidenza, molto sonno.
Dieci secondi prima di salire su un palcoscenico apro la bocca come per sbadigliare, comincio a stirarmi, molti compagni mi guardano sorpresi. È un modo naturale del mio corpo di rilassarsi.
Quando salgo sul palco invece mi sento come un bambino con le scarpe nuove. Vado a divertirmi e non sorgono altre cose. La testa pensa a godersela e a dare agli altri un granello affinché vada tutto bene. Ognuno ha le sue caratteristiche e ciò che dobbiamo provare a fare è aiutare i compagni sul palco, dare loro i loro spazi e assaporare il momento.
Qual è secondo te il modo migliore per avvicinarsi al mondo del flamenco partendo da zero? Teoria, pratica o…?
Prima di tutto ascoltare.
Se ti piace il flamenco veramente prima devi renderti conto di quali sono i palos, come si eseguono, lavorare i ritmi e da lì poi già si può iniziare qualcosa con un apprendimento basico e poi sempre più avanzato. La cosa importante è saper ascoltare, sapere e conoscere i vari palos, che ce ne sono molti, l’esecuzione, la chitarra, tutto.
La città che rappresenta la tua capitale del flamenco.
Per me Siviglia è la culla di tutto.
Tutti quanti vengono qui. Se vogliono imparare vengono qui. Se vogliono ballare un pochino per bulería vanno a Jerez, ma per l’apprendimento vero, vengono tutti qui.
Tradizione e modernità, dove ti collochi tra questi due poli, cosa pensi della scena attuale e cosa pensi degli “esperimenti”, della fusione di stili? Come vedi la presenza di altre musiche nel flamenco?
La mia forma di baile sta in un punto medio. È tradizionale, perché mi piace la tradizione, ma ci sono alcune mie esecuzioni di ballo che sono molto complicate.
Io come bailaor sono sempre stato etichettato come tradizionale. A me va bene perché lo vedo con orgoglio, perché qualcuno dovrà pur mantenere la tradizione. Alla fine è quella che perdura, perché la modernità e le invenzioni poi si perdono.
Una cosa molto facile da fare è inventare senza sapere veramente qualcosa.
Se io non sapessi ballare flamenco, se non potessi eseguire dei movimenti, la cosa più facile sarebbe inventare. O fondere. Al giorno d’oggi girano molte parole come “invenzione”, “fusione”… O come dico io “infusione”.
Un’infusione è ciò che fanno molti. Ma in realtà è da anni che la gente “fonde”: Escudero ad esempio.
Per poter eseguire un movimento contemporaneo devi aver studiato danza contemporanea per molti anni per sapere bene ciò che fai.
Io posso dire che se ce n’è uno che lo fa davvero, gli esce naturale, ed è un genio, è Israel Galván. Gli altri, sono i miei compagni, io li apprezzo, ma la verità è che è molto difficile riuscirci.
Del tradizionale, molta gente dice “uffa, tradizionale…”. Il flamenco è il flamenco e se ti annoia questo allora vuol dire che non ti piace.
Per quanto riguarda la musica, il flamenco è l’unica arte dove si può fondere ogni tipo di musica. Per esempio la musica classica non accetta che entri il flamenco. La musica contemporanea non accetta che entri il flamenco.
Noi invece siamo aperti, abbiamo la fortuna di essere camaleontici. Venga ciò che venga, ci tingiamo di quel colore. Abbiamo questa abilità. Sempre conservando la parte flamenca.
La difficoltà più grande del percorso che hai fatto fino ad ora.
Tutto è difficoltà. Io posso avere la fortuna di essere abbastanza conosciuto nel mondo del flamenco, perché mi si conosce, ma non ho la fortuna che hanno altri.
Questa difficoltà si porta sempre appresso. Io tutto ciò che ho fatto nella mia carriera è stato puro sforzo mio, puro e duro, non ho avuto nessuno dietro che mi spalleggiasse in nulla. Ma continuerò ad andare avanti. Il cammino è pieno di buche, bisogna sempre alzare la testa e andare avanti.
Qual è il tuo sogno più grande? Hai qualche progetto ancora in sospeso?
Nel flamenco, continuare a ballare per molti anni. Io non chiedo di più, perché non vale la pena chiedere di più. Al giorno d’oggi, al ritmo in cui viviamo, l’importante è avere la forza per continuare e stare sempre davanti al pubblico e divertirsi. È l’unica cosa che chiedo, perché è chiaro che la fortuna o viene o non viene, e se uno sta sempre in attesa della fortuna allora smette di ballare, come io ho fatto. Ma si riprende sempre e continuiamo con molta forza.
Una persona non conosce nulla del flamenco. Quale disco gli presteresti per presentarglielo?
Uno qualsiasi di Camarón de la Isla o di Paco de Lucía.
Hai conosciuto il flamenco in un ambiente familiare. Quali credi che siano le differenze tra una formazione iniziale accademica e una in un ambiente familiare?
La formazione che ho avuto nel contesto familiare è sempre stata quella di ascoltare molto. Ascoltare molto cante, molta chitarra. Ascoltare mio zio cantare. Mia madre, quando era giovane, ogni volta che c’era una festa cantava. Questo è l’ambiente in cui sono cresciuto. Perché in realtà nella mia famiglia, di 70 cugini o più che siamo, siamo noi gli unici, più uno, David Campallo, mio cugino bailaor, ma poi non abbiamo altra tradizione. In seguito abbiamo avuto un apprendistato più accademico, che è l’apprendistato primordiale che dovrebbe avere ogni artista.
C’è gente che dice “io ho imparato da solo”. Non so se avrà visto video di altri ballerini o no, ma se lo ha fatto non ha imparato da solo, sta imparando dagli altri. Ci sono molti modi di considerare l’apprendimento. Non ho conosciuto nessuno che abbia ballato senza aver visto un altro bailaor, senza che gli sia piaciuto qualcosa e che lo abbia assimilato.
Grazie a Rafael Campallo per l’intervista. Date un’occhiata al video qui sotto.