Validi consigli per un traduttore asociale
Quando ho terminato il liceo la mia indole da solitaria – che alle elementari una docente, con una nota di sarcasmo, etichettò come tendenza asociale – si è confermata nella scelta di una prospettiva lavorativa che molti evitano per non stare soli. La traduzione.
Nelle peggiori delle ipotesi, dopo la laurea, mi sarei ritrovata con una manciata di competenze “spendibili” in tasca, una mancanza ripagata da una esercitata analisi di testi per lo più letterari. È ben bizzarro rispondere alla classica domanda “traduci opere di narrativa?”, spiegando che non si tratta di un’opzione immediata e che giova molto, almeno per me, confrontarmi con testi tecnici e medici. Qualche giorno fa San Gerolamo (patrono dei traduttori e di diversi altri mestieri) era la risposta a una domanda aperta di un programma. Ho sentito anni di studio sbriciolarsi per essermi convinta con doti persuasive improvvisate che si parlasse di Sant’Anselmo (noto per aver giustificato l’esistenza di Dio con un sillogismo incontestabile). Come ho potuto confonderlo con il pacato e ligio San Gerolamo?
Come ho potuto confonderlo con il pacato e ligio San Gerolamo?
Gaffe come questa dovrebbero farmi dubitare delle tante convinzioni che circolano attorno al mestiere del traduttore. In primis, parlando con altre ragazze che hanno studiato lingue, mi sono resa conto di non essere la sola a non trovare il nesso fra una posizione lavorativa nel settore privato o come freelance e il beneficio di conoscere le nomenclature pseudo-scientifiche di procedimenti che spartiscono poco con la prassi traduttiva o con la linguistica vera e propria (ve le risparmio volentieri). Se per amor di solitudine so di non essere interessata, almeno per ora, a condividere un affollato ufficio con colleghi competitivi, rimango tuttavia scettica verso le nozioni astratte, convinta che il metodo sia una via irriducibilmente personale. Mi interessa conoscere le opinioni di traduttori affermati e non, ma mi piace coltivare il mio giardino.
Un capitolo a parte meritano tutti quei consigli inerenti la sfera psicologica espressi da esperti come pure da ciarlatani. Due giorni fa mi sono imbattuta nel video in cui Simon Sinek tratta il fenomeno millennials, che a suo parere coinvolge i nati dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi entrati negli ultimi anni in età lavorativa. Ho capito quanto fosse calcolato e innaturale il personaggio quando ha detto che il libro che stava pubblicizzando aveva le pagine profumate, pensate apposta per connettersi con l’olfatto invece che con facebook. Il libro profumato era solo la ciliegina sulla torta di un discorso a tratti preoccupato, a tratti ilare, che inquadrava il disagio dei “millennials”.
Per definizione le macro-categorie non sono assolute, ma ho abbozzato un esame di coscienza, mentre ascoltavo Sinek descrivere una generazione nutrita del mito di risultati immediati e di aspettative sproporzionate rispetto al mondo reale. Inoltre, secondo l’analisi di questo personal trainer (non trovo una parola più calzante, sociologo non penso proprio), molti giovani (americani) rischiano di sentirsi costantemente insoddisfatti di fronte a realtà lavorative che non permettono loro di “lasciare un segno”, per usare le sue parole. Benché il discorso fosse retorico e paternalistico, ho voluto essere clemente. Certo, non è semplice maturare un atteggiamento distaccato e al contempo solerte nel lavoro e negli affetti, ma l’ideale per Sinek sarebbe non dedicare troppo tempo al mondo virtuale, nel quale le relazioni diventano banali e riduttive, basate sul benessere dato da click e like. Questi meccanismi di falso appagamento minano l’autostima e i sentimenti veri: non potergli dargli completamente torto non rende la sua analisi d’improvviso brillante. Esistono giovani incentrati su se stessi, come anche persone umili e disposte a mettersi in discussione, ma ho avuto l’impressione che l’intervista somigliasse alla parodia anche un po’ voluta del mondo yuppie. Ed era al contempo molto triste, pur volendo far ridere.
Noto la sfumatura tragica perché sono asociale, ma in fondo sono fiera di avere ambizioni meno arriviste ed esibite.