Sabbia
La sabbia è caldissima che sembra una brace, lo dicevo io che non è proprio per nulla l’ora adatta per scendere in spiaggia.
Una bambina zampetta disperata da un’ombra a un’altra per cercare ristoro ai piedini, approfittando di ogni minima chiazza scura; adesso persino di quelle a strisce disegnate sulla sabbia dalle doghe della sedia a sdraio, che rinfrescano dita e tallone e lasciano abbrustolire la pianta del piede. Pochi secondi e riparte come una scheggia impazzita. La direzione è il mare. Si rannicchia disperata e si siede a metà percorso, alza le gambe e resta in equilibrio sul costume, infine affonda i piedini fino alle caviglie alla ricerca della sabbia bagnata sotto quella rovente. Il tempo che il bruciore sfumi via e riparte, l’ultimo ostacolo sono le pietre della battigia, fatta di ciottoli caldissimi, non così piccoli da infilarsi tra le dita, non così grandi da poterci stare sopra in bilico: grandi abbastanza, diciamo, da infliggere un ultimo supplizio alle piante dei piedi e da costringere ad affrontare di corsa quest’ultimo tratto che separa dal mare, con le ginocchia che si alzano vispe e seminano sassolini alle spalle. Finalmente il bagnato e poi in acqua. Avrà cinque anni, quella mocciosetta. Tutto questo per raggiungere papà.
Metto il cappello, con sforzo tolgo via la maglietta forzandola sopra la testa per sganciarla dal peso del mio corpo seduto. Il cappello, appena messo, vi s’infila dentro e cade giù. Argo lo raccoglie e me lo porge, poi subito si appresta a posizionare l’ombrellone. Con l’asta scava un tunnel circolare che la sabbia luccicante inghiotte subito formando un vortice. Nella discesa incontra prima del previsto una ghiaietta infida e umidiccia che puzza di pesce e catrame e resiste strenuamente a ogni tentativo dell’asta di affondare. Decide che basterà così e stabilizza quell’equilibrio precario circondandola di pietre, per provare poi infruttuosamente a direzionarne l’ombra, che data l’ora non potrà che essere a picco su noi.
In acqua lo abbraccio e lo bacio ancora; sento addosso lo sguardo schifato dell’uomo che finge di leggere il libro e che invece guarda culi.
Decido di fare un bagno. Sfilo anche il pantalone e lo passo ad Argo, che lo appende alle aste dell’ombrellone. Da ragazzo ero un abile nuotatore, scarso per la verità nel contesto dei nuotatori provetti, ma sempre bravo abbastanza da intimorire l’uomo da spiaggia medio, che di solito è poco incline allo sforzo e preferisce esibire muscoli di plastica a reali prestazioni natatorie. Un vento freddo che tira all’improvviso, provocato da una nuvola passeggera, non mi fa desistere dal proposito. Prendiamo qualcosa al bar, chiosa Argo premuroso. Il bagno lo faremo dopo. No, no dai, mi va adesso. Gli do un bacio.
Nome aulico, il suo. Un nome che fa venire in mente epiche battaglie e lunghi viaggi per mare. Che profuma di mercati levantini e della brezza di scirocco. È stato il nome, per primo, a farmi innamorare di lui.
Assicura quindi le ruote della carrozzella, mi prende in braccio e mi porta in acqua con sé. In acqua lo abbraccio e lo bacio ancora; sento addosso lo sguardo schifato dell’uomo che finge di leggere il libro e che invece guarda culi. Mi allontano, con lo stile goffo e sicuro degli ex nuotatori. In acqua ritorno libero. Argo resta lì, lui non sa nuotare.
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Il mare d’inverno, canta Loredana nella mia testa.
L’ho sentita spesso al bar della spiaggia anni fa e da allora mi si è conficcata nei pensieri come un chiodo, sta lì e tutto il resto ci gravita attorno. E nessuno vuole più solo un film in bianco e nero visto alla tv. Chi ce l’ha più la tv? Nella mia baracca l’elettricità arriva da un filo che penzola attaccato ad un palo della luce pubblico, a stento ci tengo la lampadina che fa da attrazione fatale per le falene. È tutta una folla la sera lì attorno. Le guardo volteggiare e poi scaricare piccoli segni di vita mentre si lasciano cascare sul lineolum scuro di pece.
lasciatemi Argo, l’unico essere maschio di questa terra che mi interessi frequentare.
Ci sto solo per lasciarmi andare al buio lì dentro, solo quando sono stremata dopo una giornata intera fuori a girovagare mi butto nella stanchezza del sonno che non è mai un vero sonno, piuttosto uno stordimento. Io di sogni non ne faccio più da tempo. Così prendo Argo con me e vado sulla spiaggia. D’inverno soprattutto, o d’estate la sera tardi quando l’acqua si è ritirata tanto da lasciare vaghi resti d’umanità fra le alghe e pochi pezzi di legno trascinati a riva. Argo sa che con quelli può giocarci ma con il resto delle schifezze umane no.
Un tempo in un’altra vita io cantavo, ero brava, ero bella, tutti i locali dell’isola mi richiedevano, tutti gli uomini s’invaghivano di me, proprio come falene. Poi ho sbagliato bersaglio e lui mi ha tolto tutto, anche i capelli che erano lunghi e neri. Se muore il mondo intero attorno a me non me ne accorgo, lasciatemi Argo, l’unico essere maschio di questa terra che mi interessi frequentare.
Le piaghe sotto le piante dei piedi trovano il fresco della sabbia fredda di notte, il mare ha portato sulla battigia un pezzo di materassino stracciato. Lo raccolgo: può tornarmi utile. Sotto una ghiaia umida spunta una stanghetta di un paio di occhiali da sole rotti, me li metto sul naso e faccio tanto Ray Charles. Georgia on my mind. Ooh Georgia, no peace I find…
Arrivo all’acqua, la luna mi scopre nuda, ho abbandonato i miei stracci sotto l’ombrellone immaginario dove mi attende il mio amore, mi aspetta per darmi un bacio bagnato di sale, poi andremo al bar a bere qualcosa di fresco. Noi ci amiamo a dispetto del mondo. Abbiamo il coraggio di fare l’amore sotto gli occhi dei bagnanti. Mi lascio andare al buio delle onde mentre il muso peloso di Argo mi fruga fra le ginocchia. Io sono Mara, la pazza dell’isola.
fm