il pane
Mio padre comprava il pane entrava e lo poggiava sul tavolo, la carta sottile portava con sé l’odore del forno, del fornaio, di sua moglie delle loro liti, del denaro tenuto in un pugno piccolo, che i bambini li servivano per ultimi (non li vedeva nessuno), ma anche della veglia del mattino, che le cose devono avere tempo di lievitare, riposare e possono farlo nel buio, lontano dalle correnti d’aria e dalle parole pesanti.
Se lo poggiava era una buona giornata, se invece lo tirava distrattamente la tempesta era appena sotto la carta velina.
Se lo poggiava era una buona giornata, se invece lo tirava distrattamente la tempesta era appena sotto la carta velina. Le briciole sfuggivano dall’involto e mi passava la voglia di grattare i semini di sesamo dalla crosta, cosa per cui mia madre mi rimproverava puntualmente.
– Non si fa, chi può voler mangiare il pane se tu lo rovini?
– Chi ha fame mangia, rispondevo.
Impertinente, diceva mio padre, ma sorrideva, nella voce c’era uno spazio sottile come la velina ed era là che inciampava il suo sorriso.
Quel giorno lo aveva poggiato con calma eppure la tempesta era scoppiata. Qualcosa non funzionava e io non potevo fidarmi di quei segni premonitori che mi ero inventata per dare una spiegazione a ciò che accadeva. Se mi seggo sul bordo della sedia invece che in fondo oggi non pioverà. Stupida!
La radio era spenta era quello il primo segno di sciagura, le tende della cucina erano state tolte.
– Bisogna lavarle ogni tanto – aveva esordito stizzita mia madre, e se tu fossi al lavoro il sole non ti darebbe fastidio perché non saresti qui.
Non mi vedevano io ero in bagno, la porta socchiusa e l’orecchio vicinissimo allo spiraglio, pronta a fare un salto indietro semmai avessi sentito dei passi.
Si era all’inizio dell’estate, scuola finita, anche qualcos’altro stava finendo. Non sarebbero serviti i miei gesti scaramantici, contare i semini di pane, o intrecciarmi i capelli. Sì, avrebbero continuato ad amarmi, ma del loro amore cosa ne sarebbe stato?
Si era all’inizio dell’estate, scuola finita, anche qualcos’altro stava finendo. Non sarebbero serviti i miei gesti scaramantici, contare i semini di pane, o intrecciarmi i capelli. Sì, avrebbero continuato ad amarmi, ma del loro amore cosa ne sarebbe stato? Sarebbe divenuto raffermo come il pane che quel giorno era rimasto abbandonato sul tavolo dell’ingresso. Un cappello, un soprabito senza riparo, senza padrone. La nostra casa era una vasca da bagno che navigava in un oceano.
Avevano abbassato la voce. Ma come fanno i grandi a litigare con la bocca socchiusa e senza gridare, io avevo capito che la rabbia era inversamente proporzionale al volume. Non avevo più voglia d’ascoltare, non c’era nulla da ascoltare, e a me il silenzio faceva paura.
Mi sono chiusa a chiave.
Non chiuderti a chiave in bagno. È pericoloso. E chi se ne importa. Potevo ferirli anch’io. Volevo farlo.
Aveva sentito lo scatto, un angolo del suo cervello lo aveva registrato, ogni madre ha queste capacità di selezione del pericolo.
– Zitto! La bambina, dove è?
Il tono delle voci era aumentato si erano ricordati di me.
– Apri.
– No, non apro.
Potevo immaginare il volto di mia madre appiccicato alla porta sbiadita. Lo vedevo trasformato in una smorfia di preoccupazione, era ciò che volevo, volevo che la rabbia andasse via.
-Faccio io. Era mio padre.
-Ho portato il pane, è come piace a te. Burro e zucchero?
Ho aperto la porta.
Il pane adesso era sul tavolo, la cucina piena di sole.
Mio padre lo tagliò a grandi fette, mia madre ci mise parecchia cura, burro e zucchero più del previsto. Quando ne diede una fetta a mio padre la sua mano indugiò un istante prima di lasciarlo. Era il suo modo di chiedergli scusa. L’anima è tra il pane e la carta velina, per alcuni è simile al sesamo per altri alle briciole, per me quel giorno era burro e zucchero.