Nomadi – Utopia
Mi trovavo pochi giorni addietro ad un megaraduno nei dintorni di Reggio Emilia. Vi ero capitato un po’ per caso e un po’ per piacere. Che sarebbe a dire che c’ero per lavoro e forse senza lavoro non sarei andato, ma non per questo mi dispiaceva essere in quel posto, quel giorno e a quell’ora. Il megaraduno era il concerto dei Nomadi in onore del compianto Augusto Daolio e il dintorno di Reggio Emilia era Novellara, paese natale della band.
Ora, e qui sta il succo di quanto andrò a scrivere, io non so se voi siete stati mai a questo evento e magari mi potete dire che proprio no, il gruppo vi fa cagare e Io vagabondo vi ha sfracellato le palle già in tenera età, ma vi assicuro che quanto ho percepito sotto quel tendone tra i coriandoli e i karaoke coreutici e le bandiere della pace e del Che e dei quattro mori (sempre presenti) è qualcosa che non può che destare commozione. E non per la musica in sé, ma per tutto quello che ci sta attorno.
E cosa ci sta attorno? Ci sta un piccolo mondo non ancora globalizzato se non per gli smartphone sempre attivi, un residuato del novecento, un modo di intendere la vita come aggregazione, socialità, speranza. Utopia. Quattro o cinque generazioni di venti regioni che si riconoscono in un’identità fatta di terzo mondo, lambrusco, amori disperati, socialismo dal volto umano, province orgogliose, città sognanti. Piccolo mondo antico dove la Cina era Mao e non portava ancora il Made in come prefisso e gli Stati Uniti erano quel meraviglioso paradosso che inventa il Rock’n roll e impicca i neri ai lampioni allo stesso tempo. Trump? Uh?
Ma quello che ho percepito non è felicità, bensì nostalgia. Scampoli di gloria, crepuscolo degli Dei. Pareva di vedere Demostene arringare gli ateniesi e convincerli a resistere a Filippo di Macedonia. E le parole sono bellissime e l’agorà è viva più che mai e tutti inneggiano a Demostene, ma là fuori, oltre il tendone di Novellara e le mura di Atene, l’utopia si è spenta. Arriveranno i macedoni e questo piacere di stare spalla contro spalla e cantare le stesse canzoni con un sessantenne sarà spazzato via dalla temperie di un mondo ramingo e (davvero) nomade che cerca altrove un’identità. Un mondo che non si butta la birra addosso e non suda magliette per canzoni vecchie di quarantanni.
O forse mi sono fatto fottere dalla malinconia per l’ennesima volta.
Oppure, essendo ciclica la storia, tutto ciò tornerà tra molto tempo, in forme diverse eppure simili.
Ma noi non ci saremo, cantavano i Nomadi.