Conversazione con Athos Bigongiali: genesi de “Il Clown”
Mi riallaccio come promesso al post della scorsa settimana dove ho parlato del mio incontro con lo scrittore Athos Bigongiali, per addentrarmi nella genesi del suo romanzo Il Clown e far gustare ai nostri lettori l’incipit di questa opera. Al link qua sotto trovate la prima parte:
Prima parte: Incontro con Athos Bigongiali
Affascinata da questa stoffa ho chiesto ad Athos di raccontarmi di più della sua creazione. Ascoltiamo direttamente le sue parole:
Tutto cominciò quando seppi del film di Jerry Lewis ‘The day the Clown cried’, da lui diretto, interpretato e prodotto, e poi da lui ritirato. Se ne trova traccia sul web digitando Helmut Doork, il nome del clown tedesco la cui tragica storia Lewis volle a tutti i costi raccontare finendo per rovinarsi, sia economicamente, sia fisicamente. Helmut Doork era un
interpretare Doork fu troppo per lui. Però volle andare fino in fondo
Nel romanzo io ho immaginato un terzo clown: un vecchio artista italo-svizzero, ingaggiato da Lewis per le riprese del film, sia come controfigura che come assistente. Nella nota prefattiva tuttavia non volli rivelare
Scrivere il romanzo mi costò moltissimo, per anni non riuscii a scrivere altro
Il film di Lewis è tuttora secretato: lui non ha mai voluto distribuirlo e nelle interviste ha sempre rifiutato di parlarne. Quella storia lo aveva ‘pietrificato’, come lui stesso raccontò nel libro ‘JL in person’, mai tradotto in Italia. Scrivere il romanzo mi costò moltissimo, per anni non riuscii a scrivere altro. Ero sempre là abbracciato a quei bambini dell’ultima scena del film e del penultimo capitolo del romanzo.
Riesco molto bene a capire come deve essere difficile confrontarsi con una stoffa del genere, per un autore. E quando hai avuto il coraggio di farlo, devi per forza sentirti messo alla prova. Uscire da una narrazione che ti ha richiesto così tante risorse emozionali per tornare a vivere senza i suoi personaggi e la sua realtà, e magari anche a scrivere qualcosa d’altro, deve essere davvero duro. Apprendo da Athos altri elementi che inquadrano il romanzo e che trovate qui di seguito:
Il romanzo è interamente inventato, inclusi i capitoli che vedono Lewis al lavoro e le scene del film che stava girando. A distanza di oltre trent’ anni, infatti, il contenuto reale del film – terminato nel settembre ’72 e mai distribuito – è ancora un mistero. Un mistero che fa il paio con la repentina eclissi del celebrato comico, iniziata laddove il film terminò: in quell’ultima scena interpretata da un Lewis abbandonato da ogni energia. Eclissi contrassegnata da una lunga serie di malattie e beffardamente interrotta da tentativi di ripresa votati all’insuccesso e da ritorni sullo schermo, come quello nel film di Martin Scorsese Re per una notte, dove Lewis interpretò un se stesso tristissimo e goffo, una star senza altre ambizioni che quella di sopravvivere al ricatto della morte.
Lascio poi spazio all’incipit de “Il Clown“, edito da Giunti nel 2008 e attualmente introvabile.
Parte prima
Capitolo primo
1
Era un vecchio clown ed era stato qualcuno, una volta.
Tutto ciò che voleva era lasciarsi cullare dal dondolio del treno e dal ticchettio della pioggia sul tetto del vagone.
Eccoti qua, disse lei puntando il dito sulla fotografia.
Il clown stava sonnecchiando.
Non sei cambiato, sai?
No?
Dico davvero.
Sì?
Parlavano a voce bassa nella penombra.
Eri sempre così serio, disse la ragazzina. Perché?
Ero quello che non rideva mai, il clown rispose. Era la mia parte.
Stettero un po’ in silenzio guardando la pioggia scivolare sul vetro del finestrino. Era un grigio pomeriggio d’inverno.
Hai freddo?
No.
Più avanti, mentre il clown si era assopito, la ragazzina si alzò, si tolse il soprabito e gli sedette accanto. Aveva con sé l’Annuario e altre riviste, compreso il fascicolo de Il Circo Illustrato dedicato alla riapertura del Krone Bau di Monaco di Baviera: lo sfogliò e di nuovo trovò il nome del clown. Non aveva lo spazio dedicato a Popov, non era stato un Antonet, un Bebé o un Cretinetti, ma era pur sempre il tony apparso in Eurovisione a fianco del grande Grock, principe degli augusti: un artista, diceva il trafiletto, degno della migliore tradizione italiana dei comici muti. Era ancora lì quando lui si svegliò.
Che cosa fai?
Oh, disse lei. Cercavo.
Il solito buco nella calzamaglia?, disse il clown.
La guardò: piegata com’era, il tutù quasi le nascondeva il viso.
Guardò le gambe snelle avvolte nella calzamaglia e le scarpette rosse. Il buco era nell’incavo dietro il ginocchio: lei prese la valigetta di lui, frugò e trovati l’ago e il filo lo rammendò. E ora tocca a te, disse.
Lui sospirò, lei gli diede un’occhiataccia.
Non vorrai mica esibirti così?, disse.
Lui sapeva già cosa l’aspettava e non aveva voglia di dirle di smetterla: l’amaro calice andava bevuto fino all’ultima goccia, pensò guardandola preparare il pennello e la scatola dei colori.
Chiudi gli occhi e farò di te il più bel tony del mondo!
Il treno stava sbucando dall’ultima galleria scavata nei monti degli Appennini quando il clown riaprì gli occhi e vide nel piccolo specchio che lei aveva appeso alla maniglia del finestrino, di fianco, il suo viso truccato: proprio come una volta, gli parve. I segni bianchi della matita intorno alle labbra dipinte di rosso, il naso paonazzo e la lacrima nera sotto l’occhio sinistro.
Tutti così i clown: non si sa mai se ridono o piangono.
Ma lei nel frattempo era scomparsa.
La chiamò. Dove sei?
Gli rispose il rumore dello specchio in frantumi, caduto in quel preciso momento dal finestrino spalancato, e subito dopo lo sbuffo vaporoso della frenata del treno. Stazione di San Rossore, il clown lesse attraverso il fumo che risaliva dalla locomotiva prima di rannicchiarsi sul sedile, nello scompartimento vuoto, il volto celato dal bavero del suo vecchio cappotto nero. Forse era sul punto di piangere o forse no: comunque nessuno se ne sarebbe accorto.