La mia Chiesa
Un silenzio pieno di Te. Ho soltanto i miei passi sul marmo freddo a ricordarmi chi sono. Quando invece vorrei dimenticare. Maledetto. Disgraziato. Peccatore. Basterebbe una parola a dire chi sono davvero.
La lana del pullover mi dà prurito sul collo, non la sopporto, soffoco. È il maglione che mi hanno regalato i miei parrocchiani a Natale scorso, brava gente. Tutti figli miei li sento, gente che in questo angolo sporco di città ha trovato la luce.
Devo ricordarmi di togliere la polvere dall’altare, domani mattina subito prima della santa messa. Sono diventato pignolo, anche un misero granello mi procura un senso di disturbo profondo, mi dà la nausea. Nella mia chiesa tutto deve andare a posto, l’incenso lo scelgo io di persona dalla vecchia a San Biagio dei librai quando esco a portare da mangiare alle famiglie della zona, quelli che stanno dove non batte il sole.
Io sono padre Egidio; da quarant’anni io sono l’Amore e la Carità.
Ciao Madre di Dio, sono il servo tuo, mi getto ai tuoi piedi, non son degno di guardarti negli occhi, tu sei la regina. Piangi? Sono lacrime quelle che scorrono sul tuo bel viso? Le candele sono spente, non tollero che non ci sia neppure un lumino ai tuoi piedi. Tu sei la Madre, io l’umile servo tuo. I piccioni tubano fra le bifore e lasciano briciole. Non sono mica San Francesco io, le bestie sporcano. Non voglio alcunché fuori posto nella mia chiesa. Tua la Tua, Padre mio, perdona la mia presunzione, sì mi getto ai tuoi piedi e ti bacio le vesti, non sono nulla io.
Basterebbe una parola a dire chi sono davvero.
Padre Nostro, Padre mio, mio solo mio, colpiscimi il petto forte più forte, non son degno di diffondere il tuo verbo. Che sei nei cieli, stammi accanto su questa terra di confine. Rimetti a noi i nostri debiti, a me quelli verso la comunità che mi venera come fossi santo. Non ci indurre in tentazione. Chiudimi gli occhi sigillami le palpebre e incatenami le mani. E liberaci dal male. Liberami dal male che ho fatto ancora oggi a quelle tenere carni bianche e innocenti. Almeno fino a domani, tanto che io possa chiudere gli occhi sulla pace di me stesso e svegliarmi qui, sul marmo, domani, pronto per il tuo corpo e il tuo spirito.
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Mani congiunte, profilo fisso innanzi, postura eretta e seria. I capelli raccolti meticolosamente in un tuppo nero corvino tenuto fermo da un’unica forcina. Per profumo come sempre un olio essenziale al muschio, indosso come sempre un maglioncino nero attillato a maniche lunghe.
Di Carla si muovono solo le palpebre; a momenti non respira nemmeno. In chiesa bisogna fare silenzio. Accanto alla sua migliore amica – Carla pure lei, in paese le apostrofano le Carle – soltanto gli occhi accennano di lato mentre sussurra tra i denti “che coraggio quella zoccola a prendere la comunione”. Amen.
“Non ha nemmeno quindici anni, lo sanno pure le pietre che non è più vergine”. Gloria.
“Non ha nemmeno quindici anni, lo sanno pure le pietre che non è più vergine”
“Ma Giusy la vedi invece?”, “Eh?”, “Secondo me è incinta”, “Ma dai”, “E vedi bene, quella è di tre mesi ti dico io”, “Ma come faranno che lui non lavora?”, “Eh ma tu allora non sai niente”. E con il tuo spirito. “E che è?”, “Prende la pensione adesso. Di invalidità. Si è finto cieco”, “Ma dai”. Scambiatevi un segno di pace.
Carla e Carla si girano, destra sinistra, mani che si stringono distratte, occhi che non si guardano, occhi che guardano attenti altrove. È uno dei pochi momenti in cui in Chiesa è consentito voltarsi. “Hai visto Rita che anello che ha?”, “Che?”, “Ci ho stretto la mano, per me non è suo”, “Ma sì, quello il marito di notte gioca a poker, avrà vinto con qualcuno”. La messa è finita, andate in pace.
“Che brav’uomo Padre Egidio, veramente un buon prete”, “Eggià, il peccatore meno di tutti qui dentro, proprio sicuro”, “Sapessi come si prende cura dei bambini il pomeriggio, mio figlio ci va sempre all’oratorio”, “Ah sì? No, il mio invece non vuole andarci più”.
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