Un mappamondo con un moscerino spiaccicato in Paraguay
Un giorno mio padre arrivò a casa con una grossa scatola e un sorriso malcelato. I lineamenti del viso lo hanno sempre tradito alla bisogna. Gli succede ancora oggi, ma ha i capelli bianchi e un figlio over trenta e quindi non ci se la prende più di tanto. Avevo capito subito fosse un mappamondo: intravedevo l’Australia stampata sulla scatola lucida. C’era anche un bambino con la faccia da pirla che fissava gli Stati Uniti. Mi sono sempre chiesto se ai bambini delle pubblicità qualcuno dica: fai la faccia da pirla, da bravo, fatti odiare dai tuoi simili. Oppure gli viene così. Un talento naturale, genetica tramandata da genitori dementi.
Non vedevo l’ora di avere un mappamondo. Quando volevo una cosa facevo entrare l’oggetto del desiderio in ogni discorso. L’ho fatto anche con le donne, alcuni anni dopo. Non ne sono del tutto sicuro, ma ho idea che quando una donna mi interessi, tutt’ora la cito assai spesso. (Rileggendo queste righe, mi accorgo di aver accostato i termini donna e oggetto. Non me ne voglia il gentil sesso, chi mi conosce sa che parte rilevante, nel bene e nel male, ha avuto nella mia vita).
Ed era proprio un bel mappamondo, di quelli che girano veloci sul proprio asse e si illuminano a meraviglia. Che bel caleidoscopio che ne veniva fuori in Europa e negli Stati Uniti. Che tristezza, al contrario, quelle macchie estese di Unione Sovietica e Cina. Inventai subito un gioco: farlo roteare forte forte e bloccarlo tutto ad un tratto, poi con gli occhi chiusi puntare il dito e scoprire dove avrei abitato da grande. Fu così che imparai come al mondo ci sia più acqua che terra. E comunque un destino che mi mandava a vivere nell’Oceano Indiano non prometteva nulla di buono. Se ne sta su una comodina nella casa al mio paesello. Ogni tanto lo faccio girare e punto il dito, come una volta. Solo che non ho domande da porgli
Quel gioco, tra l’altro, non mi ha mai abbandonato. Con il passare degli anni ho interrogato l’oracolo per conoscere da dove sarebbe provenuta la mia prima fidanzata (Steppa dei Chirghizi), il mio migliore amico (Stretto di Bering) e la mia futura moglie (Oceano Pacifico, non meglio identificabile).
Ce l’ho ancora, il mio mappamondo. E ci mancherebbe anche, potrebbe dire a questo punto lui, ti ho fatto imparare la geografia meglio che l’atlante che tieni sul bidé. Se ne sta su una comodina nella casa al mio paesello sugli appennini. Ogni tanto lo faccio girare e punto il dito, come una volta. Solo che non ho domande da porgli. E allora l’osservo solamente e mi stupisco ancora di come siano diritti i confini in mezzo al Sahara.
L’altro giorno ho notato una cosa strana: una piccola macchia in Sudamerica. Solo che era tardi e essendo sabato mi era scappato bevuto qualcosa di troppo, quindi non sono riuscito a distinguere la nazione incriminata. Allora mi sono addormentato e detto che l’indomani ci avrei pensato. Il giorno dopo ci ho guardato ed effettivamente una macchiolina punzonava lo stato del Paraguay appena sopra Asunciòn, la capitale. Ho provato a rimuoverla con l’unghia dell’indice, ma ho dovuto constatare come la macchia fosse interna al mappamondo.
Una mosca. O un moscerino. Un piccolo insetto, insomma. Un novello Salgari che aveva tentato il viaggio al centro della terra e trovandola vuota era andato morire di depressione dalle parti del Rio de la Plata. Povero moscerino. Tanta audacia non meritava una fine così ingloriosa. Mi auguro possa rimanere per sempre in Paraguay, in modo ch’io possa rendergli onore ogni qualvolta mi metta a fissare il mappamondo.
Ho un mappamondo con un moscerino spiaccicato in Paraguay. Ogni tanto lo illumino e lo faccio roteare forte su sé stesso. Poi allungo la mano per fermarne la corsa. Ma non lo sfioro nemmeno, perché non ho domande da porgli. E lui gira fino a che il suo moto non ha requie su un meridiano qualsiasi.