Verde, la rivista ispirata a Fiumani e Pazienza
Pierluca di Verde mi ha scritto qualche giorno fa. Ha molto da raccontarci a proposito di Verde, la rivista che ha fondato: con molto piacere noto che ha intrecciato riferimenti letterari ai nomi del punk e del fumetto bolognese degli anni Ottanta e coinvolto le voci di altri redattori della rivista.
Questa intervista ha saziato le mie attese e la mia curiosità, spero di non essere la sola!
Anna Quatraro: Ciao Pierluca e grazie per la tua disponibilità. Per prima cosa, vuoi spiegarci quali esigenze sono all’origine della nascita di Verde Rivista?
Pierluca D’Antuono: Ho cominciato a pensare a Verde circa dieci anni fa. Avevo appena scoperto Stefano Tamburini e tutta la scena dei primi Cannibali attivi tra Roma e Bologna negli anni Ottanta. Non parliamo chiaramente del gruppo abborracciato un decennio dopo da Brolli per Einaudi (anche se di quella famigerata antologia l’unica vera cannibale italiana, Alda Teodorani, ha avuto un ruolo decisivo nella storia di Verde), ma dei fumettisti, grafici, artisti visivi e creativi che ruotavano attorno alle riviste Cannibale e Frigidaire, ideate appunto da Tamburini. Per me fu una folgorazione totale: in quelle pagine c’era una bellezza inquietante e perturbante, “la presenza fantasmatica di un evento colossale”, per dirla con Mark Fisher, cioè il 1977, l’eroina, il punk, le Brigate Rosse, RanXerox, la Roma dei nuovi soggetti sociali e delle borgate, Bologna e i carri armati, Andrea Pazienza, le avanguardie neodada e gli studelinquenti, la prima new-wave, l’accelerazione sintetica degli anni Ottanta, il fumetto, una grafica pazzesca e certi reportage assurdi. Ero così entusiasta che decisi di scrivere la mia tesi di laurea triennale su tutta questa roba (naturalmente al Dams, dove sennò?) e più tardi, addirittura, mi convinsi che avrei potuto fondare la mia Frigidaire personale. Doveva essere un immenso contenitore chiamato Osama, con all’interno una sezione di racconti intitolata Verde. Perché Verde? Ovviamente per Federico Fiumani, potete ascoltare la canzone dalla quale ci siamo ispirati per il nome Verde.
Ti racconto tutto questo per chiarire che il retroterra di Verde non è letterario, ma più vicino al mondo delle fanzine e dell’autoproduzione, che in seguito infatti abbiamo incrociato.
A.Q: Mi sembra di capire che Verde, dopo un periodo durante il quale era stampata, è entrata a pieno titolo nel favoloso mondo delle riviste virtuali. Quali sono stati i benefici di questa scelta? Ci sono stati anche disagi di qualche tipo?
P.D.A.: Del contenitore fortunatamente non se ne fece nulla, alla fine nacque Verde, una fanzine di “protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze” che riuscì ad autoprodursi dal 2011 al 2014. Abbandonare il cartaceo non è stata una scelta, non potevamo più andare avanti perché autoprodursi costa e noi non avevamo più soldi. Infatti Verde veniva distribuita gratuitamente, quindi direi che il beneficio più evidente di questa non scelta è stato economico. D’altra parte sul cartaceo non potevamo che pubblicare racconti brevi, brevissimi (le famigerate protolettere), perdendo cose più lunghe che con il blog, come favolosa rivista virtuale, possiamo leggere e fare leggere. Siamo andati cioè verso narrazioni più complesse, strutturate, finalizzate (più letterarie?). Possiamo pubblicare più autrici e autori o più spesso certi nomi che ci piacciono. Per quanto mi riguarda, però, aggiornare costantemente il blog è più faticoso e meno divertente di pensare a un numero, preparare il timone, controllare l’impaginato, correggere le bozze, andare a prendere le copie in tipografia e spedirle ovunque. L’obiettivo è di tornare a stampare, prima o poi.
A.Q: Verde ha deciso di specializzarsi nella pubblicazione di racconti e illustrazioni di qualità. Qual è la tua opinione in merito a una forma narrativa spesso bistrattata dai grandi editori? Per contro, pensi che la piccola e la media editoria abbiano sviluppato una maggiore sensibilità verso i racconti o sei convinto che il racconto fatichi a conquistare la fiducia di tutti gli editori, al di là delle loro dimensioni?
P.D.A.: Dal mio osservatorio non sono in grado di dire se il racconto sia una forma narrativa più o meno bistrattata di altre, né di rispondere alla fatidica domanda che anche qui in redazione ci poniamo spesso, cioè come sta l’editoria indipendente. Ti rimando all’ultimo numero de Il Colophon interamente dedicato allo stato del racconto, e a una indagine molto centrata di Vanni Santoni, dove si dice che scrivere racconti è difficile, ma pensare – prima ancora che realizzare – raccolte lo è ancora di più.
A.Q: La stessa Verde si propone di educare i suoi lettori a determinati gusti e a sguardi narrativi precisi. Quali sono i tuoi gusti e autori di riferimento e quanto orientano la selezione del materiale che arriva in redazione?
P.D.A.: Naturalmente non abbiamo mai avuto propositi educativi, o almeno me lo auguro. Parlerei piuttosto di aspirazione ad una adesione di gusto, che è una idea più fluida e meno impegnativa. Credo che la forza di Verde sia di aver trovato e mantenuto una coerenza nel corso degli anni e degli avvicendamenti. Le mie letture sono disordinate, tutt’altro che metodiche, mi piacciono le scritture solide, cesellate, finalizzate alla costruzione di una lingua nel tempo, ma anche quelle di trama e di intrattenimento. Mi piacciono i racconti riscritti, non mi piacciono i racconti buttati giù in fretta. La prima selezione del materiale in arrivo è quasi sempre la mia, ma spesso capita che in redazione qualcuno proponga di pubblicare cose che io proprio tralascerei, o viceversa: qualche mese fa ad esempio, a luglio, ho dovuto faticare non poco per convincere gli altri a mandare online un racconto che ormai è un piccolo culto dentro Verde, anche se da un po’ sospettiamo che l’autore sia in realtà uno dei nostri sotto pseudonimo.
Vinicio Motta: Mi affascina e attira tutto ciò che non si dovrebbe vedere, né leggere, e che allo stesso tempo ribalta certezze e convinzioni. Adoro Pynchon, McInerney, Dick, la nuova carne di Cronenberg e la narrativa cyberpunk.
Andrea Frau: Burroughs, se vuoi anche Dick, Ballard e Vonnegut. Lovecraft, Carpenter e Polanski, Fulci e Argento, nomi che mi vengono così, su due piedi.
A.Q: Quali letture credi siano fondamentali per chi si volesse cimentare con il racconto?
P.D.A.: Rispondo anche io in piedi come Frau e ti dico i soliti Poe, H.P. Lovecraft, Hemingway, Carver, King. Tra gli italiani, Giorgio Manganelli e Dino Buzzati (cominciare con “Riservatissima al signor direttore”).
Vinicio Motta: I racconti della prima fantascienza americana, della cosiddetta Golden Age. Perché sono storie a trazione anteriore, di plot, ma con un cuore speculativo.
A.Q: Pensi che si possa saper scrivere bene pur leggendo meno di dieci titoli all’anno, o credi che la scrittura richieda pure un notevole sforzo in termini di letture?
P.D.A.: è stato John Fante a dire “è assurdo che uno scrittore debba anche scrivere”?
Vinicio Motta: Leggere è essenziale. Soprattutto cose diverse da quelle che si vuole scrivere. Il nuovo allontana dalle “comfort zone”, che sono le vere nemiche della creatività.
A.Q: Quali consigli ti senti di dare a chi vuole esordire coi racconti?
P.D.A.: Se intendi esordire a scrivere racconti, interessarsi al racconto, quindi leggere, studiare, scrivere, esitare. E soprattutto riscrivere.
Vinicio Motta: Vivere il più possibile e poi scrivere, scrivere, scrivere. Fino a detestarsi.
Andrea Frau: Leggi tanto, anche cose brutte, scrivi seriamente, non prenderti troppo sul serio e non avere paura di ciò che pensi, anche se orribile.
P.D.A.: E di ciò che scrivi? Se è orribile?
Andrea Frau: Neanche, perché non avrai mai la presunzione di avere qualcosa di nuovo da dire. O di orribile.