Limitatezze della scrittura
Scrittura è, prima di tutto, comunicazione. Poi si può scegliere di condividere le proprie fantasticherie o serratissime formule matematiche o tesi socioeconomiche, ma il primo passo è volerle comunicare al mondo esterno. Sembrava una forma di arte così semplice da poter arrivare ovunque. Per fotografare serve buona attrezzatura fotografica, per dipingere buoni pennelli, colori e tele, per montare video non ne parliamo neanche, e se in tutto ciò aggiungiamo il fattore tecnologia il discorso si fa ancora più difficile. Anni e anni di studio e investimenti economici se si vuole suonare uno strumento con completa padronanza, se si vuole cantare o recitare. Bene: la scrittura è sempre sembrata una soluzione proletaria al dilemma del triangolo arte/investimenti economici/dedizione “cronologica”.
Invece me ne accorgo adesso, viaggiando oltre i confini nazionali per un periodo di tempo abbastanza lungo per assaporare serate itineranti in localini nascosti e preziosi della città, me ne accorgo ora che le persone iniziano a chiamare anche me per una serata fra amici “a casa di”, che non è tutto oro quel che luccica. La scrittura è un muro contro cui sbattere la testa appena si va oltre i confini nazionali. Le serate sono piene di musicisti, artisti, fotografi, creatori di installazioni, registi che hanno qualcosa di profondo da comunicare o semplicemente vogliono divertirsi condividendo un sentimento provvisorio e accessorio con chi hanno attorno. La gente muove la testa a ritmo quando un ragazzo improvvisa un pezzo di beatbox o mugugna parole nella sua lingua appoggiandole su una melodia sensazionale. Sentendo quel vortice di note ripetersi in un inquieto e altalenante loop, guardando i minuti scorrere mentre quella ragazza o ragazzo resta fermo davanti alla fotocamera aspettando l’istante giusto per scattare la fotografia, mi sono accorta di come solo i miei castelli in aria non riescono a rendersi visibili agli altri. Io li vedo, i loro mondi paralleli, li ascolto e li tocco con mano.
Intendo la gioia di sapere che qualcuno, leggendo le mie parole, sente un’emozione.
Niente da fare, ci sono momenti in cui la scrittura diventa una scarpa troppo stretta. Magari non per chi mette radici in patria, ma di certo per i vagabondi del mondo. Accorgersene è un po’ come accettare che non si potrà raggiungere la completa condivisione di sé fuori da certi limiti. La scrittura, la mia quantomeno, vive di condivisione. E non intendo la condivisione nella superficiale accezione di oggi, la viralità o quant’altro. Intendo la gioia di sapere che qualcuno, leggendo le mie parole, sente un’emozione. È successo con alcuni italofoni, qualcuno me lo ha fatto presente e mi ha riempito il cuore, ed è stato lì che ho capito che quello era l’obiettivo. E mi rammarico quando il mio cuore si riempie di fronte a forme d’arte che non necessitano di parole, e ricevo senza poter dare. Perché un conto è parlare una lingua, un altro conto è saperla usare come forma d’arte. Mischiare italiano inglese francese spagnolo e portoghese è sfiancante, me ne accorgo a fine giornata. È frustrante sapere che ho pronunciato soltanto parole ma che qualcosa lì in fondo è rimasto non detto, incastrato negli ingranaggi di transizione.
Non c’è problema.
Sono sicura che troverò un modo di rendere universali i miei geroglifici.