Due ingredienti di vita inseparabili
Indossavo solo la sua camicia e poi ero nuda e lui mi diceva che in quel momento sapevo di caramello salato
L’eco della sua moto echeggiava tra i fiori di lavanda e i rami di rosmarino che mi erano accanto con sapori pungenti e acri, e vibrazioni verdi e violette. Io lo aspettavo con in mano un cesto rossiccio e largo mentre a mano a mano ci alternavo dentro steli di fiori e rametti di erbe da portare in casa. Avevo indosso un abito di maglia turchese che lasciava le spalle scoperte. Le ciocche dei capelli strette in un fermaglio molle lasciavano andare il ciuffo, rossiccio e ribelle, a solleticare le gote. Le mie mani sapevano di terra e di orto e del salmone che avevo sfilettato poco prima; c’era profumo di mare e di collina e nelle punte dei miei capelli una scia di scalogno che si mischiava alla sapidità delle olive in frutto intorno a me. La ghiaia sterrata strideva nel vento e la musica che avevo messo continuava a suonare come un girotondo divertente. Lasciavo vibrare nell’aria le sue canzoni preferite per accoglierlo quando sarebbe entrato dal cancello di legno aperto e sarebbe arrivato verso di me scendendo veloce dalla moto, mi avrebbe baciata sapendo di caffè e sigaretta e in fondo alla sua gola avrei trovato un retrogusto di zucchero a velo della tortina al riso che aveva mangiato quella mattina in cucina con me accanto. Indossavo solo la sua camicia e poi ero nuda e lui mi diceva che in quel momento sapevo di caramello salato. Tutte le nostre dolcezze e le nostre note più amarognole durante la notte mi si erano appiccicate addosso.
Erano capelli di donna biondissimi e disordinati e con un profumo soffice e avvolgente, ci si poteva perdere le mani dentro per slegarli e poi annusarli
Dentro il sole di quella mattina gli avevo pulito la punta del naso con la lingua e la bocca mi sembrò come fosse ovatta, invasa da quello zucchero soffice, ed ora lì sul ciglio del roseto, nel profumo caldo di maggio con accanto il rosmarino disordinato e voluminoso, mi accorsi che il naso bianco ce l’avevo anch’io: mi ero sporcata di farina e uova quando poco prima avevo impastato la sfoglia per le tagliatelle. L’avevo amalgamata con mani e polsi agili, movenze decise ma delicate e l’avevo tirata con il matterèllo e passata nella macchina di metallo lucido e splendente, proprio come mi aveva insegnato mia madre. Avevo spostato la manovella che sembrava un canestrello senza buco ed ero partita dal numero più alto per arrivare fino all’ultimo livello possibile per fare la sfoglia più sottile. Poi mi ero ricordata di riporre la pasta in uno strofinaccio umido per non farla seccare. Mentre pezzo per pezzo tagliavo le strisce per fare le tagliatelle, attraverso i miei occhi esse sembravano le frange di un abito Charleston, porose e leggiadre nel momento in cui con una mano le sollevavo nell’aria e le facevo cadere sul tavolo per districarle con l’altra, erano capelli di donna biondissimi e disordinati e con un profumo soffice e avvolgente, ci si potevano perdere le mani dentro per slegarli e poi annusarli.
Le tagliatelle le avrei fatte con il salmone, l’erba cipollina e la noce moscata e, sul finire, una cascata di caviale nero.
Un vino che assomigliasse alla nostre guance arrossate d’amore, acidulo come un ribes scarlatto
Come abbinamento a quel piatto volevo un vino morbido e fresco insieme, un vino che assomigliasse alla nostre guance arrossate d’amore, acidulo come un ribes scarlatto per essere invasi da un tocco tenue e vellutato, come se ad ogni sorso sembrasse di mangiare una ciliegia polposa e appena colta. Scelsi un rosé cangiante che sembrava rame liquido e trasparente.
Presi dalla madia di legno chiaro della cucina due calici sottili e affusolati, versai il vino e tornai in giardino, mentre lui arrivò proprio in quell’istante.
Scese dalla moto agile e veloce fasciato nei i suoi jeans sfrangiati, con il gesto di una sola mano si tolse il casco e subito mi baciò le labbra, mi disse che erano rosate come il vino che avevo appena versato.
Ci baciammo a lungo contro le fronde della lavanda dando le spalle al vento, ci sfiorammo il collo e il mento, perdendo di vista la cognizione totale del tempo.
Rientrammo a casa all’unisono, abbracciati con le mani sulla nostra schiena e addentammo del pane in modo giocoso.
Ci sedemmo a tavola incredibilmente golosi di cibo e di vita, con la dolcissima convinzione di essere due ingredienti di vita inseparabili.