Intervista a Raúl Cantizano
Foto di A. Acuña
Un teatro o una peña? Dove ti senti più a tuo agio, o meglio, dove puoi esprimere meglio la tua arte?
Al giorno d’oggi le peñas sono luoghi morti, spazi dedicati alla coltura di menti stantie dove predomina l’immobilismo e l’autocompiacimento usando come pretesto il conservatorismo.
Non credo che ci sia una vera intenzione di generare diffusione e di potenziare l’arte flamenca.
In un teatro puoi offrire il tuo lavoro a un pubblico più vario, che è venuto liberamente e con meno pregiudizi.
L’interpretazione e le sensazioni sono le stesse o cambia qualcosa se ci si esibisce davanti a dieci persone o cinquecento?
Tutto dipende dalla connessione che stabilisci con il pubblico, non tanto dal numero di persone presenti. L’attenzione e l’empatia del pubblico fanno sì che uno possa crescere e quindi dare il meglio.
Questa situazione può verificarsi in uno spazio piccolo gremito di gente o in un teatro con dieci persone e viceversa.
Faustino Núñez in una recente conferenza a Cordoba ha sottolineato l’importanza degli appassionati di flamenco stranieri, di quelli che non lo hanno nel sangue, dei turisti, per la sopravvivenza del flamenco e la sua diffusione. Qual è la tua opinione a tal proposito e come vedi l’interesse dello straniero?
Il flamenco non si porta nel sangue.
Nel flamenco siamo tutti turisti. Tutto dipende dalla relazione che hai avuto con il flamenco e le opportunità di viverlo e la tua esperienza.
Conosco molte persone nate in altri paesi che sono in contatto con il flamenco studiando da molti più anni di altri che si vantano delle loro origini, inoltre con proposte più interessanti e più autentiche.
È ovvio che qualsiasi arte è spinta dalle persone che ci lavorano, artisti, appassionati, spettatori, programmatori, organizzatori di festival, liutai.
In tutto questo c’è una grande maggioranza di gente di altri paesi con molto amore, dedizione e interesse nel continuare a far evolvere il flamenco.
Qual è il palo che più ti rappresenta e perché, e quale invece quello che ti risulta più estraneo, se ce n’è uno.
La Cantología di Niño de Elche credo rappresenti il mio modo di capire il flamenco.
Sono 24 stili fatti in un solo cante.
Quello che di meno (anche se per me non è un palo) la sevillana. Ce ne sono poche che mi piacciono e in generale non mi piace molto ascoltarle.
Essere maestro e artista. In quale momento senti che stai dando di più all’altro, pubblico o alunno, durante una lezione o un’esibizione?
Credo che se sei sincero sempre, in ogni momento dai, sia in una lezione sia sul palcoscenico. Ciò che mi sembra interessante è che durante una lezione a volte ricevi tantissimo: imparo sempre molto dando una lezione.
Il momento più importante e quello che più ti ha emozionato della tua carriera.
Ogni giorno è importante, ogni volta che possiamo mettere su un palcoscenico una proposta creata insieme con altre compagne e dall’inquietudine comune e la necessità di esporre i nostri progetti (nonostante tutti i rischi che a volte comporta), questa è la parte più emozionante.
Dico sempre che ogni giorno è un’opportunità e una fortuna di poter fare ciò che facciamo.
I tuoi maestri, coloro che ti hanno insegnato qualcosa che non dimenticherai mai.
Sono tante le persone dalle quali ho avuto l’opportunità di imparare e di tanti ambiti diversi che non riesco a dirtene uno adesso.
In realtà non credo nella dualità maestro-discepolo. Al giorno d’oggi non regge.
Audio, video, compagni, altre arti, la cucina, ho imparato da tutto.
Quali sono gli artisti che più ti piacciono della scena attuale del flamenco e con i quali ti piace o piacerebbe lavorare.
Ho la fortuna di lavorare con molte delle persone che più mi interessano come artisti. Mi sento fortunato. E sono tutte persone che progettano di fare arte che va oltre il ripetere una stessa formula più e più volte.
Fortunatamente nella scena attuale ci sono molti artisti impegnati nell’arte e non nell’idea assurda di un flamenco chiuso dove non entra più niente e nessuno.
Le emozioni che provi proprio prima di andare in scena e quelle che sorgono durante lo spettacolo e alla fine, quando tutto finisce.
È difficile parlare delle emozioni, non c’è mai stato interesse nell’insegnarci ad esprimerle. È curioso che cercando le parole per descriverle molto spesso ci esce la descrizione di uno stato fisico. Facendo uno sforzo mi vengono: entusiasmo, paura, piacere, amore, gratitudine.
Qual è secondo te il modo migliore per avvicinarsi al mondo del flamenco partendo da zero? Teoria, pratica o…?
Avvicinarsi ed impregnarsi con intuizione, senza pregiudizi e senza formule.
La città che rappresenta la tua capitale del flamenco.
Direi Siviglia… però certo, io vivo qui.
Tradizione e modernità, dove ti collochi tra questi due poli, cosa pensi della scena attuale e cosa pensi degli “esperimenti”, della fusione di stili? Come vedi la presenza di altre musiche nel flamenco?
La tradizione non smette di essere una costruzione, ognuno costruisce la sua. Per me è tanto moderna e tradizionale una soleá come un tema di Frank Zappa. Mi piace andare da un estremo a un altro. Gli estremi sono sempre più vicini. Ciò che sta in mezzo non mi interessa tanto.
Gli “esperimenti” come dici tu, sono l’unica maniera possibile di creazione. Ci sono tavolozze con molti colori e altre che lavorano solo in una gamma di colori, questa sarebbe la differenza.
La fusione è una parola che risponde ad una formula commerciale, per me non definisce niente. Inoltre, quasi sempre risponde a un taglia-incolla, è più una sovrapposizione superficiale che un adottare altre forme di fare.
La presenza di altre musiche nel flamenco è l’unica cosa che c’è. È sempre stato così e sempre lo sarà.
Il flamenco esiste grazie alla somma di molte musiche, di diverse tradizioni e diverse provenienze.
La difficoltà e la soddisfazione più grandi del percorso che hai fatto fino ad ora.
La difficoltà più grande credo sia di vincere giorno dopo giorno la mia insicurezza in ciò che faccio e di conciliare, o forse separare, la mia vita artistica da quella familiare. La soddisfazione è vedere che c’è gente che apprezza ciò che fai e che gli dà valore, e soprattutto che gli fai reimpostare le cose, vedere che ciò che fai potenzia il senso critico.
Qual è il tuo sogno più grande? Hai qualche progetto ancora in sospeso?
Il mio sogno più grande sarebbe di poter vivere di arte più avanti, a cinquanta, sessant’anni.
Per fortuna ho molti progetti in sospeso.
Una persona non conosce nulla del flamenco. Quale disco gli presteresti per presentarglielo?
Uno di José de Los Reyes “El negro del puerto”. Il suo modo di cantare e di raccontare lo rendono molto speciale.
“La chitarra sta cambiando e io ho un obbligo con la gente che mi segue di aprire nuovi campi” ha detto Paco de Lucía nel 1986…
Esattamente, “aprire nuovi campi”.
Grazie a Raúl Cantizano. Non perdetevi il video qui sotto per scoprire questo grande artista.