Intervista a Jeromo Segura
Primavera 2015: È appena finita la prima esibizione di questa sera a Casa de la Memoria. Incontro Jeromo Segura nel camerino prima che inizi il secondo spettacolo.
Un teatro o una peña?
Dove ti senti più a tuo agio, o meglio, dove puoi esprimere meglio la tua arte?
L’ interpretazione e le sensazioni sono le stesse o cambia qualcosa se ci si esibisce davanti a dieci persone o cinquecento?
Fa lo stesso lavorare per dieci persone che per duemila, ma è vero che le sensazioni sono differenti. In generale un teatro è un po’ più freddo.
Una peña è più calda perché è un luogo più piccolo e hai la gente più vicina, ma a me piace sia lavorare in una peña che in un teatro.
In una peña perché il pubblico è vicino, in un teatro perché la puntualità, la serietà e il rispetto sono differenti. Sono gratificanti tutti e due.
Faustino Núñez in una recente conferenza a Cordoba ha sottolineato l’importanza degli appassionati di flamenco stranieri, di quelli che non lo hanno nel sangue, dei turisti, per la sopravvivenza del flamenco e la sua diffusione.
Qual è la tua opinione a tal proposito e come vedi l’interesse dello straniero?
È’ vero. Inoltre il flamenco è Patrimonio dell’Umanità e il flamenco è già una musica mondiale.
Riguardo ciò che mi dicevi, evidentemente è vero che noi da molti anni dipendiamo dagli stranieri.
Loro hanno la stessa importanza nostra.
Perché oggi alla Biennale di Siviglia, al Festival di Jerez, alla Suma Flamenca di Madrid, il 60% dei biglietti che si vendono sono per stranieri, non per spagnoli. E nelle accademie è lo stesso.
Mi azzarderei a dirti che qui non si dà al flamenco il prestigio che ha.
Se il flamenco fosse una musica di un altro paese gli si darebbe più importanza.
Ma purtroppo in Spagna – e soprattutto in Andalusia – abbiamo questa abitudine.
Qual è il palo che più ti rappresenta e perché, e quale invece quello che ti risulta più estraneo, se ce n’è uno.
Il palo che mi rappresenta di più… Tutti.
È vero che io mi sono innamorato dei cantes mineros, infatti ho fatto un lavoro su questi canti e ora mi sono impegnato a continuare facendo ricerche, continuando a registrare musiche che al giorno d’oggi sono perdute. Quindi identificarmi, con il cante de levante, ma in generale mi identifico con tutti i cantes. Non ce n’è uno che non mi piaccia. Sono innamorato della mia professione e del cante flamenco, per lui vivo le ventiquattro ore del giorno.
Essere maestro e artista. In quale momento senti che stai dando di più all’altro, pubblico o alunno, durante una lezione o un’esibizione?
In entrambi i casi. Ti direi che mi “muove di più le budella” quando mi esibisco io, ma ci sono anche dei bellissimi momenti quando do lezioni ai miei alunni.
Il momento più importante e quello che più ti ha emozionato della tua carriera.
È ovvio: il momento più importante è stato quando ho vinto la Lámpara Minera nel 2013, e anche quello che mi ha emozionato di più.
Perché per me era un sogno, mi ero preparato per molti anni. Si è realizzato il sogno ed è stato il giorno più importante della mia carriera.
I tuoi maestri, coloro che ti hanno insegnato qualcosa che non dimenticherai mai.
Naranjito de Triana, senza neanche pensarci. E José de la Tomasa, ma soprattutto Naranjito de Triana.
Quali sono gli artisti che più ti piacciono della scena attuale del flamenco e con i quali ti piace o piacerebbe lavorare?
Nel baile Eva Yerbabuena, Farruco, Pastora Galván, Adela Campallo, Rafael Campallo, Israel Galván, Rocío Molina, Manuela Carrasco…
Nel baile ora come ora ce ne sono tanti… ma se dovessi sceglierne una, Eva la Yerbabuena, senza dubbio.
Nel toque, dei giovani, come solista Vicente Amigo.
Nel cante, dei giovani mi piace molto Arcángel, Miguel Poveda.
Lavorare, ho lavorato – e attualmente lavoro – come prima figura con tutti, se non erro. Marina Heredia, José Mercé, Carmen Linares, Miguel Poveda, Arcángel, Mayte Martin, El Pele…
Credo che in questo momento non ci sia nessuno con il quale non abbia condiviso la locandina.
Le emozioni che provi proprio prima di andare in scena e quelle che sorgono durante lo spettacolo e alla fine, quando tutto finisce.
Prima di andare in scena – soprattutto oggi, prima non mi succedeva perché non avevo nessun tipo di pressione, cantavo al baile, oggi invece canto come prima figura – le sensazioni sono di molta tensione, perché evidentemente uno ha una lastra di marmo addosso, come diciamo noi flamencos. Invece durante il concerto, quando fai la prima letra e ti metti nel tema, te la godi.
E alla fine ciò che ti rimane è che hai tirato fuori le budella e sei molto contento.
Soprattutto la cosa importante è uscire a cantare con l’intenzione di divertirti e di dare tutto ciò che hai dentro.
Qual è secondo te il modo migliore per avvicinarsi al mondo del flamenco partendo da zero? Teoria, pratica o…?
Pratica direttamente.
Perché la teoria ti serve evidentemente, perché è un corso di studi.
Il flamenco è un corso di studi, una carriera.
Per questo ci sono due tipi di cantaores, di chitarristi e di bailaores, quello che studia, lavora nel teatro, nei festival, nella peña, e quello che si impara quattro letras por bulerías e por tango, canta in un bar, in una festa.
Quindi la pratica. La teoria come secondaria.
La città che rappresenta la tua capitale del flamenco.
Per me Siviglia. Io sono di Huelva, ma Siviglia è stata la terra che mi ha dato il lavoro che oggi ho.
Siviglia, Jerez … Ma per me Siviglia.
Tradizione e modernità, dove ti collochi tra questi due poli, cosa pensi della scena attuale e cosa pensi degli “esperimenti”, della fusione di stili? Come vedi la presenza di altre musiche nel flamenco?
Mi piace. Io mi considero un cantaor tradizionale, o come diciamo noi flamencos, un cantaor de flamenco puro.
Ma nel flamenco è tutto inventato, io tutto l’apporto di altre musiche al flamenco lo vedo bene perché se è ben fatto lo arricchisce. Ma è anche vero che a me piace la purezza del flamenco, del cante, del baile e della chitarra, ma non mi chiudo a nulla, e ciò che è ben fatto, quando si fonde con altre musiche, mi piace.
La difficoltà più grande del percorso che hai fatto fino ad ora.
Che sono stato e continuo a stare molto tempo lontano da casa mia.
Ho trentacinque anni, e da quindici canto come cantaor professionale, e la difficoltà più grande è che ti manca la tua terra, soprattutto la tua gente, la tua famiglia.
Ho due figlie piccoline, una ha sei anni, si chiama Samara, l’altra ne compie tre adesso ad aprile, è la mia Estrella, e la verità è che quando uno deve stare tanto tempo fuori ti mancano, mia moglie, mio padre, mia madre, i miei fratelli. È il sacrificio più grande della carriera.
Dà anche molta soddisfazione perché oggi in ogni paese del mondo dove vado ho un amico, e questo è molto bello. Ho percorso il mondo intero e a trentacinque anni ho la fortuna di aver visto molte cose e anche questo è molto gratificante.
Qual è il tuo sogno più grande? Hai qualche progetto ancora in sospeso?
Nella mia carriera ci sono sempre progetti in sospeso. Io mi fisso sempre una meta e ogni volta che me la sono proposta l’ho raggiunta perché ho lavorato tanto per arrivarci.
Ora come ora il mio sogno più grande è quello che sto vivendo, apparire nelle locandine come prima figura del cante. Ora sto lavorando ad una produzione di un disco e questo era il mio prossimo sogno, che Juan Carlos Romero, un produttore di Huelva che per me a fare dischi di flamenco è il migliore, mi facesse un disco di temi suoi.
Anche questo sogno che avevo si sta realizzando. Ora come ora sono fortunato perché nel mio lavoro il mio sogno più grande lo sto vivendo.
Una persona non conosce nulla del flamenco. Quale disco gli presteresti per presentarglielo?
Gli darei un disco di Paco de Lucia, Cositas Buenas, lì si vede riflesso il cante, la chitarra e il baile.
Cante palante o cante patrás?
Ora come ora… palante. Ma sono innamorato del baile, per questo quando faccio un recital, anche senza che me lo chiedono io porto un bailaor invitado, perché sono innamorato di questa professione. Ma ora come ora, cante palante.
Fernando Quiñones diceva: “il cante non si capisce, si vive.” E Manuel Machado diceva: “Le coplas non si scrivono: si cantano e si sentono. Nascono dal cuore, non dall’intelligenza e sono fatte piú di grida che di parole.”
È vero.
Il cante lo hanno espresso come è. Io quando canto, canto con il cuore, non canto con la testa, non sto pensando a cosa sto per fare. Quando si canta, si canta con il cuore, perlomeno nel mio caso, sennò sarebbe molto freddo.
Nel cante, nel baile o nel toque se tu ce l’hai tutto preparato e calcolato evidentemente non c’è nulla di puro e sarebbe freddo.
Difatti se il flamenco è ciò che è, è per questo.
È una musica che esce dal cuore, non c’è partitura né niente.
Per me il flamenco è la mia professione, la mia vita, è ciò con cui convivo le ventiquattro ore del giorno e sono una persona molto fortunata perché grazie a questo ho un lavoro e si compiono i miei sogni e le mie mete.
Un ringraziamento a Jeromo per la sua intervista, sperando che i suoi sogni continuino a realizzarsi!
E per voi lettori di Parlando di flamenco, ecco Jeromo Segura: