Le uova
Si sono rotte tutte e tre, le aveva decorate mia madre, che a Pasqua anche questo bisogna fare. Lei le buca con un ago sottile da una parte e dall’altra e poi soffia, (così dice), io non l’ho mai vista farlo e so che non mi ci proverò nemmeno, non mi piace sporcarmi. Le uova puzzano anche se sono fresche e io non riesco a comprendere perché si debbano decorare delle cose che celano umori e odori nascosti.
Ho sentito il rumore che ero all’altro capo della casa, secco, vuoto.
Mi dispiace, ha detto la signora che mi aiuta nelle faccende domestiche, ha sgranato gli occhi – non me lo aspettavo, dentro questo cestino non c’è mai stato niente.
Non importa, e intanto guardavo l’interno sterile e sbiadito improvvisamente alla vista, i cocci colorati sparsi sul pavimento.
Tranquilla si rimedia, non mi sentirò più obbligata a tirarle fuori e a metterle in mostra sul tavolo della cucina, che le uova per me stanno bene solo nella loro vaschetta in frigorifero, o in un piatto, cotte.
Non c’erano mai state, ha continuato.
Ho preso scopa e paletta e ho gettato tutto nel secchio della spazzatura.
Di spalle le ho ripetuto che non importa, stesse attenta a non cadere lei dalla scaletta. Non è messa in regola.
Un pezzetto di trina gialla è rimasto attaccato alla scopa, sì, perché ci mette anche le bordure, uova barocche. Il cestino mi è costato tre euro in uno di quei negozi di oggetti assolutamente inutili, ma ipnotici, entri sapendo che non ti serve nulla e alla fine compri anche la busta per portare via ciò che hai acquistato.
Non le ho custodite con cura. Non le dirò: mamma i gusci decorati sono finiti insieme ai rifiuti, agli avanzi di cibo alla polvere raccolta oggi. Non le dirò nulla.
Nidi polverosi dove covano indisturbati veleni, chiusi in ampolle minute, quando li ingerisci o appena li annusi avverti la potenza di una deflagrazione.
Non c’era nulla, erano vuoti.
Altri nidi sono rimasti appesi ai rami, che non sempre dall’amore nasce qualcosa, l’odio invece raramente è sterile. Tre soldi e tre uova, forse avevo speso poco, non era il posto adeguato, consono alla loro bellezza, ma io non avevo adoperato che rametti secchi, li ritenevo adatti.
Non erano mai state qui.
Ha ragione. Parecchie cose non dimoravano più tra gli oggetti cari, i cassetti sbilenchi della memoria, la pelle screpolata senza rimedio delle mani, c’erano danni ai quali non era possibile riparare.
Ha ragione. Avevo abbandonato e il terreno era divenuto gerbido, estraneo, e mentre altri badavano al mio nido io cambiavo abiti e stagioni, ripensavo ai buchi, non volevo sporcarmi né le mani né il viso, ci avrebbe pensato il tempo.
Sui rami è pericoloso, in bilico come ceste intrecciate, scomode, la sensazione di stare in piedi su un autobus senza maniglioni. Cosa era diventata la mia casa? La paglia secca, i colori impalliditi. La notte sognavo stanze e persone sparite da anni. Conservavo la sciarpa che mio padre non toglieva mai e che mia madre in un momento di ira mal trattenuta aveva afferrato e tirato a sé, ma aveva finito soltanto per ritrovarsi faccia a faccia con un uomo che non amava più.
Come è che si vuotano le uova? Due buchi, uno da una parte uno dall’altra.
Erano rimasti insieme, lui attaccato a lei, di più. Più di quanto io volessi o potessi sopportare, più di quanto lei volesse.
Tieni queste uova, ho usato colori tenui, i nastrini del cestino del cucito, quello che nasconde meraviglie e aghi nascosti tra centinaia di fili di cotone.
Il mio cestino costava tre soldi, per me tanto valevano.
Non lo avrebbe mai saputo.