Quell’affollata solitudine di Fernando Pessoa
Avevo sedici anni quando lessi ‘Il libro dell’inquietudine’ e tuttora ricordo l’analisi vivida e ipertrofica della solitudine straniata e disperante, e la più impietosa decostruzione dell’identità spinta ben oltre il possibile. La crisi dell’identità intesa come un io solido e sicuro di sé è un tema molto caro a Pessoa e lo ha reso probabilmente il poeta più emblematico dell’intero novecento.
Leggevo il libro con il più tipico desiderio dell’età di identificarmi nel protagonista, un desiderio continuamente frustrato poiché l’io segreto e segregato in nebbiose speculazioni celebrali non si lasciava cogliere. E nel frattempo mi chiedevo in che misura l’autore si identificasse con questo soggetto vigliacco, ottuso nella sua rivolta contro la “realtà” stabilita dai rapporti quotidiani e dalle abitudini, dallo sguardo oggettivato della scienza.
Ricordo il libro come uno studio incoerente e frammentario della coscienza, la confessione di una ineludibile inadeguatezza alla vita attiva e la negazione di sé. Pirandello, Kakfa e Svevo sono nomi che sento di poter accostare a Pessoa, che dalla sua ha una particolare inclinazione per la coscienza multipla e schizzata, che salta all’occhio nella sua biografia. Ci informa: “Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti.” Ci teneva molto al rifiuto di essere una sola persona e ad essere identificato con le opere al punto che non le firmò con il suo vero nome, per le quali inventò un esercito di eteronimi e di biografie fittizie fedele al mistero dell’identità più autentica e criticando il feticcio dell’identità come messa in scena di un io unitario.
I suoi eteronomi non si limitano a semplici pseudonimi, ma rappresentano personalità poetiche autentiche e complete. I più famosi sono Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro e lo stesso Fernando Pessoa, con il quale l’autore tuttavia non si identifica. Chi sono queste creature dell’immaginazione? “Ho messo in Caeiro tutta la mia forza di spersonalizzazione drammatica, in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, in Alvaro de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia vita.” Si sa che Ricardo Reis, autore delle Odi, è un medico appassionato di latino e di filosofia classica e animato da idee monarchiche.
Sprofondato in un nichilismo inesorabile, Pessoa si rifugia in una dimensione onirica abitata dalle sue proiezioni e da fantasmi con i quali lo scrittore si diverte a inscenare il dramma della perdita di sé stesso e delle certezze esistenziali. Per queste ragioni, Pessoa è il simbolo della sensibilità portoghese, una nazione umiliata e ferita, debole ed eterna esclusa dalle altre nazioni europee, soprattutto dalla Spagna, da cui si è sentita schiacciata.
Il ritiro spirituale che in Pessoa sfocia un misticismo agnostico e oltraggioso verso la vita è l’altra faccia di un Paese che sull’assenza ha edificato una delle sue più celebri leggende storiche. Mi riferisco alla vicenda del re Sebastiano I di Aviz, il cui corpo, secondo la tradizione, non venne più trovato dopo la disastrosa sconfitta ad Alcazarquivir (Marocco) nel 1578, che aprì una crisi di successione e di fatto segnò il passaggio del Portogallo alla corona spagnola.
Questo episodio generò anche una sorta di attesa messianica nei confronti del re desiderato, ancora vivo alla stregua di un’apparizione miracolosa nella memoria collettiva del Portogallo e perfino della Calabria, dove si sviluppò una leggenda che lo voleva lì rifugiato: queste vicende sono state di ispirazione di Donizetti per il melodramma Dom Sébastien de Portugal. Il parallelo con un re scomparso potrebbe quasi essere interpretato come un io messo al bando dalla psiche, in balia di un’affollata solitudine di aspiranti sosia.