Figlia di una ciambella
In questo quartiere “girano” ancora le biciclette e anche un sidecar, se chiudo gli occhi posso sentire la moto del signor Asdrubale (che uno si potesse chiamare così io non lo avrei mai immaginato), lui è quello che la mattina dà la sveglia al quartiere con una vecchia Guzzi rossa; mi fa pensare alla guerra, la tiene lustra che sembra nuova. Sveglia anche i fannulloni destinati a ciondolare tutto il giorno tra un bar e una taverna.
La strada brulica di piccole botteghe, case costruite negli anni cinquanta, palazzine di non più di tre piani dove vivono nuclei familiari e ci si conosce tutti.
La merceria da quando ha rinnovato ha tirato su un’insegna strana: ‘Foderami’, ma che vuol dire?
Quando mia madre ha bisogno di roba per cucire, spagnolette, passamaneria o della stoffa leggera, si va là, e io guardo le pezze poggiate sugli scaffali che arrivano fino al tetto e mi chiedo come la moglie del proprietario possa arrivare fin lassù, un metro e cinquanta scarsi, bionda stopposa, magra, un ferro da calza. Non hanno avuto figli, queste cose si sanno.
Accanto c’è la taverna, mia madre dice che non mi devo avvicinare neppure alla porta, perché chi beve non è gente buona, e io da lontano guardo le facce stropicciate, e mi arriva la puzza di vino, che non è l’odore del vino che mamma mette in tavola la domenica, no, questo è brutto, sa di uva lasciata a marcire nel sacchetto di plastica. A me il tavernaro, come lo chiamano, mi fa un’impressione che non mi lascia tranquilla, e i bicchieri? Bevono da bottiglie di vetro scuro che sembrano sempre piene. Ogni tanto qualcuno cade e s’addormenta sul marciapiede, uno è caduto sul bordo del cassonetto una volta, ma non se n’è accorto, aveva del sangue secco sulla faccia quando si è svegliato.
Adesso che sono grande vado a comprare il pane da sola, non ho ben capito perché prima si servono gli adulti e noi bambini ci sforziamo sulle punte dei piedi per sembrare più alti.
Io arrivo a malapena al vetro del bancone, e quando non c’è più gente grande mi danno il pane, un torcigliato, ben cotto!
E non sopporto che se non ce ne sono più, la fornaia, decide lei quale pane darmi e poi mio padre dice a mia madre: ma che hai comprato? Lo sai che questo diventa subito duro? Mia madre si becca il rimprovero al posto mio e mi sorride di nascosto. E io di nascosto l’abbraccio.
La frutta la compriamo dagli ambulanti scalcagnati, perché nelle botteghe costa di più, ma quando si va da quello all’angolo ed è stagione di fave, io ne rubo una bella verde soda, lui fa finta di niente e io le mangio per strada; da Don Mimì, l’ambulante, non lo posso fare, quello grida, quando lo vedo alla taverna faccio finta di non conoscerlo. Il vino gli è arrivato fino agli occhi, ce li ha sempre rossi e acquosi. Io sono nata tre traverse più a nord, si partoriva ancora in casa, e si moriva di più, comunque mia madre ed io ce la abbiamo fatta e dopo poco è arrivato anche mio fratello – questo nasce in clinica – aveva stabilito mia madre, in realtà stava per venire al mondo sui sedili dell’auto di mio zio l’americano, e finì che lo chiamarono come lui: Umberto, che poi è nome monarchico, ma almeno non è nome da comunista, che in casa mia ci sono parecchi libri, ma Il capitale non l’ho mai visto.
Ad un certo punto ci siamo trasferiti tre traverse più sotto, una casa a piano terra, andavamo a stare con i nonni, ma eravamo felici solo noi bambini, i miei invece litigavano a bassa voce, e mia nonna ogni tanto diceva che doveva andare dal medico, non ci sente più come una volta. Non le ho mai creduto. Mia madre mi aveva detto che non le piaceva stare al quarto piano, che io ero troppo intraprendente e che lei non si affacciava nemmeno per stendere i panni. Credo che invece scarseggiassero i soldi.
Nella stessa strada, alla fine dell’isolato c’è il bar Lancia, è un nome che mi fa pensare ad un’auto, ne girano poche e hanno forme strane, sedili di pelle che ci resti appiccicato in estate e spesso a me nella macchina di papà mi bruciano le cosce, ma mettere un telo da bagno sui sedili è una cosa che fa il popolino, (non è mica scemo il popolino).
Qualche anno fa ho trovato una foto, ci sono i nonni e mia madre davanti il bar, e l’insegna non mi fa più pensare alle auto, avverto invece una fitta forte, forte. Dicono i grandi che a noi da bambini queste fitte non ci colpiscono, ma che le teniamo conservate per quando saremo come loro.
La mattina passiamo dal bar, io ho già la mia merenda nel panierino dell’asilo, è di plastica dura, rosa, un po’ mi vergogno, ma sono una bambina e si usa così, fosse stato per me lo avrei scelto di un altro colore, mamma mi dà una banana, che è il frutto in assoluto che detesto, la trovo tutta nera e ammaccata, e se è un buon giorno anche una barretta di cioccolato.
Di ritorno da scuola il mio primo pensiero è arrampicarmi sullo sgabello di legno che sta dietro la cassa del bar, a fianco a sinistra c’è il distributore automatico di gomme da masticare, gigantesco e inespugnabile, bisogna metterci una monetina da dieci lire, e ti sputa palline colorate non più grandi di una ciliegia e dure.
Austero e ineffabile sembra indovinare i miei pensieri, prendersi gioco di me. Seduta in bilico mi tengo ancorata alle manigliette di ferro dei cassetti, in quello grande ci mettono i soldi, lo sanno tutti, il mio obiettivo è il cassettino laterale dove nonna tiene la scorta delle chewing gum, è là che io devo arrivare.
La mia mano sparisce e sento che più stringo più sfuggono, quando la tiro fuori c’è una patina di appiccicume di un colore indefinibile.
Nessuno fa caso a me, resisto persino alla voglia di masticare subito quelle rosse che secondo un ragionamento basato esclusivamente sull’attrazione cromatica ritengo siano le più buone, riempio senza esagerare le tasche del grembiule blu e nascondo insieme alla polvere e ai gessetti di scuola il mio bottino. Vocazione da ladra, o semplicemente attratta da ciò che gli adulti t’impediscono di avere nelle quantità che tu desideri. E poi questo bar è anche mio.
Mio padre mi ha raccontato che io sono nata per via di un caffè e di una ciambella, una di quelle con lo zucchero spolverato sopra, che se le mordi ti s’imbianca il labbro superiore e devi tirar fuori la lingua perché del dolce non si spreca nulla quelle ciambelle che lasciano un’impronta oleosa sulla carta velina, l’olio ci passa attraverso e ti sporca le mani, io me le asciugo addosso tanto il grembiule è scuro.
Nel mio DNA oltre alle catene desossiribonucleiche con quelle eliche che non mi sono mai entrate in testa, ci sono granelli di zucchero, gocce d’inchiostro e un caffè. Il mio futuro padre era entrato nel bar dei miei nonni per un caffè forte e ristretto come si usa qui e aveva visto una ragazza bionda dallo sguardo un po’ perso.
Era la fine degli anni sessanta, un bar senza pretese; nel laboratorio attiguo, mio nonno prepara dolci e gelati, il pezzo forte: il caffè. La ragazza bionda con un abito grigio e rosa dai disegni incomprensibili era al bancone dietro un vassoio di ciambelle. Una ciambella, signorina!
Aveva dimenticato tutto, gli impegni della giornata che comunque a quei tempi non è che avesse tanto da fare, e si era innamorato. La ciambella aveva ricevuto appena un morso per finire al suo pastore tedesco, sì perché a quei tempi non si facevano troppe storie, i cani erano cani e potevano entrare nei bar. Si era seduto a un tavolino di quelli non certo alla page ma un po’ scrostato e con le sedie scompagnate. Quello dove mia madre sedeva a scrivere e a disegnare con il suo sguardo miope (che non si sarebbe messa gli occhiali neanche se l’avessero costretta), che non li aveva neppure quel giorno che lei e la sua amica altrettanto miope avevano sbagliato autobus, perché i numeri da lontano si potevano confondere, e così avevano implorato l’autista di farle scendere fuori fermata.
Questo è il bar di mia nonna, una signora burbera dai capelli folti che si ostina a tingere di nero, che tiene testa a qualsiasi uomo e che non avrebbe voluto che mia madre sposasse mio padre, ma anche lui era un tipo ostinato. Nonna mi lascia fare i compiti seduta al tavolino, sempre quello, appena più sciupato, ascolta le mie storie e le mie fantasie, e non si annoia mai. Lei sa che non ci sono buchi nel cassetto delle caramelle, nonna che diventa una iena se qualcun prova a fare il furbo con lei. Lei che rimprovera il banconista che non brilla di intelligenza, ma è onesto. Io sono la piccola peste curiosa che legge, scrive, ama, io che sono anche un po’ figlia sua, figlia di una ciambella e di un caffè.