Ragionando sugli oggetti
Avresti potuto avvisarmi, prima di suonare con la tua insistenza devastatrice. Quando posso venire a dirti addio?Sono parole semplici da rivolgere. Avrei potuto rifiutarmi di aprire il portone. Credevo fosse il postino, con il mano una raccomandata importante da firmare. Ma quale raccomandata. Eri tu, l’egoista più incallito che abbia conosciuto. Dopo aver atteso quasi un mese una tua telefonata, eccomi inchiodata al mio dovere di invitarti almeno per un caffè.
Entra, per favore. Non rendere tutto più difficile. Del mio dolore, a te non interessa. Non mi racconto illusioni, ma almeno siediti e parliamo da persone civili. Sei venuto qui con la lista aggiornata delle mie mancanze, vuoi stordirmi con la tua metodica autocommiserazione? O vuoi, molto più semplicemente, tutti i tuoi polsini, il tuo ombrello blu cobalto, il tuo spazzolino di scorta? Un esercito di nomi muti e inalterati ti attende con impazienza. Hai portato con te l’inventario dei miei errori, o vuoi raccontarmi una notizia che non potevi dirmi al telefono?
Ti porgo il barattolo dello zucchero e mescoli quella polverina giallastra con grazia scostante. I tuoi respiri meccanici sono un chiaro segnale di fastidio. Guardi fuori dalla finestra, come se stessi analizzando gli effetti di una frase o cercando di ricordare un paradigma in inglese. Il tuo sguardo anagramma il silenzio, pesante come un pugno. Quindi ti sei trasferito a Milano, alla fine? Conosco la risposta. Sì, ne avevamo parlato, se ricordi. Mi irriti: come pensi che possa aver rimosso un “dettaglio” che ha monopolizzato il nostro dialogo per più di quattro mesi? Fingo di soprassedere. E tu, ti senti più libera, adesso? Che vendetta soave, la tua. Ho molto più tempo per me rappresenta il massimo della soddisfazione che sono disposta a concederti. Mi mostri una lista di oggetti che devi prendere, hai perfino portato uno zaino pieno di sacchetti di cotone e sorrido.
Mentre gli oggetti migrano dai loro spazi consueti, mi sento spogliare di uno strato di suppellettili che non mi mancheranno. Mi sento come una pianta alla quale una mano agile tagli i rametti morti. Tieniteli stretti, sono tuoi.
Ti apro la porta della camera, rassegnata alla tua furia sincera. Avevi proprio bisogno del tuo segnalibro verde, ne sono sicura. E le pantofole, vogliamo parlarne? Le ho lavate, sai. Ho piegato la tua federa di ricambio. Apro l’armadio per mostrartela. La rete di oggetti si restringe, fino a quando non entri in bagno e vedi che ho usato il tuo sapone. Te lo posso ricomprare, mormoro. Tienilo pure. Ho bisogno del bagno. Cafone.
Mi siedo sulla poltrona, mentre mi saluti, ci scambiamo sorrisi alteri, entrambi pensiamo di aver vinto contro il nostro avversario più forte. Conto fino a dieci e finalmente ti dilegui con l’ombra molesta delle tue reliquie. L’estraneità è scesa guardinga fra noi e mi adatto facilmente a questo vestito opaco e garbato. La metafisica degli addii è una materia che mi deprime, quindi ti ringrazio, in silenzio. Arrivederci o a mai più, una parola non cambierà lo stato di cose.