La vita ai tempi della tangenziale
Qualche giorno fa mi sono fermato a fare gas in tangenziale. Non è il posto più conveniente della città, ma a pochi metri dalla pompa c’è il bar con il bancone in radica e il caffè della Illy di Trieste che mi piace tanto e la barista che viene da una città un po’ più a oriente di Trieste e me la faccio piacere perché è bionda, perché è mattina e comunque così devono andare queste cose e non sarò di certo io a cambiarle.
Accanto a me c’erano due lattonieri dalle barbe ispide e nicotinate e le dita così tozze da non entrare nel manico della tazza del cappuccino manco di mignolo. Li ho indovinati piacentini dalla vocale in odor di Lombardia. Il più giovane dei due si è calcato il cappellino Ferrari in testa e ha fatto all’altro “Il caffè migliore di Parma è questo qui”. Ma l’altro si è passato le dita sui radi riccioli, ha controllato che la barista non lo avesse sottecchi e ha dissentito: “preferisco l’Agip. Due chilometri più in là. Già ti ho detto”.
La vita ai tempi delle tangenziali è una tristezza. Ti accorgi di essere in città perché un cartello ti indica una stradina rachitica sulla destra della grande striscia di cemento. Quella è la porta della città contemporanea. Le tangenziali sono ovunque e ovunque hanno la stessa funzione centrifuga. Non ti ci vogliono in centro con la tua macchina del cazzo. Fai casino. Trema tutto. Intasi tutto. Garibaldi si ossida. I piccioni non cagano più. Pussa via dal centro. Anche se il centro, come accade in certi paesoni, è un buco di culo e tutto il resto è boom
Hai ammirato le meraviglie architettoniche anni settanta stagliarsi oltre il guardrail e magari hai suonato alla signora al tredicesimo piano
Ci sono passato da quella città. Dove sei passato? Così ci sono passato, di sfuggita. In auto? Si, in tangenziale. In tangenziale. E che avrai mai visto in tangenziale, un cazzo hai visto. Hai visto Mercatone Uno, la Metro, la concessionaria Toyota e se le barriere del suono con i gabbiani stilizzati non te l’hanno impedito magari hai visto pure la Peugeot. Hai ammirato le meraviglie architettoniche anni settanta stagliarsi oltre il guardrail e magari hai suonato alla signora affacciata alla sua cella del tredicesimo piano. E poi giustamente ti sei rotto i coglioni e hai fatto quello che fanno tutti in tangenziale: inviare messaggi vocali su whatsapp. Dicendo che è una giornata di merda e questa città fa cagare di brutto.
Le tangenziali sono impersonali, alienanti. Non capisci se stai girando in senso orario oppure antiorario. Se la fai tutte le mattine non t’interessa nemmeno più di tanto, che il percorso è memorizzato e il cervello fa da sé. Non puoi insultare nessuno in tangenziale, nemmeno le donne, nemmeno i vecchi, perché tanto si va tutti alla stessa velocità e comunque manco hai voglia di fare un po’ di sano razzismo.
Gli autovelox in tangenziale servono a risvegliare l’odio nella gente, non certo a redimere gli sfrontati del pedale destro. La speranza è stillare una goccia d’odio in cotanta disincantata apatia. Ma tu non te ne accorgerai mai. E comunque ti rimane la speranza che abbia pizzicato la Golf davanti o la Clio dietro. Solo i lavori in corso risvegliano il vitale astio nel cuore del guidatore. Ma poi, quando hai infine scelto l’epiteto da rifilare agli operai, ti ritrovi davanti un ragazzotto con una bandierina da guardialinee e la pelle olivastra e ti perdi a pensare se sia marocchino, e allora l’insulto è giustificato, oppure solamente abbronzato da idrocarburi vari, e allora ti scopri patriota e ti dispiace un po’. E così l’odio scema nel nulla.
Sono uscito dal bar dopo aver battuto un euro sul bancone in radica e salutato la barista della città più a oriente di Treste con uno scatto di zigomo degno del più scafato dei Marco Polo. I lattonieri piacentini già erano ripartiti per la tangente, pronti a sfiorare nuove città e paesi. Fuori faceva un freddo cane e tutto era ovattato da un nebbione novembrino. Alla mia destra c’era un campo gelato, alla sinistra l’ultimo avamposto della città.
O forse era il contrario.
Non si vedeva una mazza.
Non saprei dire.