Hikikomori, “vivere” in perfetta solitudine
Negli ultimi tempi, mi sono sentita sul punto di diventare una hikikomori, relegata fra le mura di casa, seduta di fronte al pc. La colpa non è dell’inverno o di un malessere fisico, ma della tesi di laurea. Se pensate che stia ingigantendo la cosa, forse non conoscete che l’hikikomori comporta un completo isolamento sociale, proprio ciò che si richiede a un laureando! Ho appena scoperto su wikipedia che il fenomeno hikikomori, nato in Giappone negli anni ottanta, vanta una vasta letteratura popolare, compresi anime e manga: c’è davvero tutto il necessario per una tesi in Cultural Studies. (Tento di sdrammatizzare, dato che questo disturbo è piuttosto tetro.) Prima di tutto, bisogna sapere che gli specialisti lo considerano come uno stato di alienazione e rifugio al quale ricorrono i giovani giapponesi che si sentono inadeguati di fronte all’imperativo sociale del successo scolastico e professionale.
L’hikikomori sembra uscire direttamente dalla penna di Pirandello e dice molto delle ansie che serpeggiano nelle società ricche. Il fenomeno è comune ormai anche in Europa e durante il decennio scorso, è stato studiato in ambito accademico. Si è così compreso che dipenda dalla paura del fallimento e da una famiglia che carica di aspettative i figli senza dar loro il giusto affetto. I più colpiti sono i ragazzi, in età fra i 16 e i 25 anni. Nella terra del Sol levante le persone recluse sfiorano il milione, su un numero complessivo di abitanti di 127 milioni. In molti casi, la famiglia stende un velo di silenzio e racconta che il figlio è partito a studiare all’estero, perché la vergogna che deriva dal convivere con l’hikikomori è opprimente. Senza contare che nei confronti della minoranza femminile ci sono pregiudizi di genere che giustificano la scelta di non uscire come indizio di buona condotta morale.
Non è un mistero che il Giappone sia una nazione plasmata dal culto del perfezionismo e del sacrificio personale; nel libro In Asia, Tiziano Terzani dedica al Giappone un’analisi efficace delle ossessioni e degli eccessi di una società in conflitto con sé stessa, utile per capire di che cosa sto parlando. Il loro intero sistema scolastico si basa su una feroce competizione e una scala gerarchica fra scuole eccellenti e scuole mediocri che condiziona tutta la carriera scolastica degli studenti. In questo contesto di rincorsa al successo materiale, è molto elevata la stigmatizzazione della povertà, che oggi interessa una persona su sei. Per anni, le statistiche reali non erano rese pubbliche con la precisa intenzione di mostrarsi una nazione solida e lavoratrice.
Se i giapponesi rigettano il paradigma dell’efficienza e della produttività ad ogni costo e la sensazione di avere un destino segnato fin dalla scuola materna, mi sono chiesta a che cosa si ribellano i giovani europei che si chiudono in camera. Forse alle normali frustrazioni per i voti, al timore dell’incontro/scontro coi coetanei o alle pene della ricerca del lavoro. Di certo non rassicura pensare che in Italia i casi segnalati si aggirino fra i 30 e i 50 mila, una fetta massiccia di popolazione giovanile che merita di essere presa in cura. Per molti profani, è ancora difficile accettare che questo fenomeno esista e non sia un sinonimo esterofilo di depressione o di dipendenza delle chat. Anzi, la tecnologia può essere il ponte per instaurare una relazione terapeutica con queste persone.
Si tratta di un allontanamento dalle normali responsabilità e della ricerca di sicurezze in forme di intrattenimento virtuali, senza far caso se è notte o giorno. Nei casi fino ad oggi analizzati, questa assenza può prolungarsi per cinque/sei anni. Provo a fare qualche ipotesi, pur non essendo una psicologa. Possono esserci delle assonanze con i disturbi dell’alimentazione, per un desiderio potente di sovvertire le proprie abitudini, una forte impotenza e una svalutazione delle capacità controbilanciata da compensazioni narcisistiche.
Tornando a me, pur godendo del piacere della solitudine mentre scrivo la tesi, mi sento ancora sana e sono propensa a vedere questa patologia come una forma di auto-punizione messa in atto, paradossalmente, per affermarsi.