Sette dicembre Quarantatré
Un giorno freddo di dicembre, alla vigilia dell’Immacolata, Chiara prese la sua vita e, mentre oltrepassava un ponte sospeso sopra una vertigine infinita, decise di scagliarla con tutte le sue forze dentro la storia d’amore più grande che avesse mai sentito raccontare: quella di un Dio fatto bambino.
Misuro la distanza tra il punto esatto in cui si addensa questa storia che si trova al centro del mio cuore e quello dove il centro del mio occhio brilla, dietro il sipario scuro di una pupilla vuota, nera voragine che trascina in sé la luce del mondo che mi viene incontro.
Mi accorgo che è misura straripante, che sono inadeguato, che non conta lo strumento di misurazione, che il mio sondaggio mi consegnerà sempre e soltanto valori approssimati, che quella distanza si dilata ad ogni nuovo saggio, che si restringe fino a sovrapporre i centri, che è sogno il mio, che non è possibile nemmeno il tentativo di fermarmi, che son costretto dallo stesso fatto di avere un cuore in dotazione e di essere uno sguardo aperto a tentare quella impresa per costituzione destinata al fallimento.
Mi consolo quasi e sono quasi uno scherzo per me stesso pensando che non possa farne a meno.
Non posso deporre da qualche parte in un cassetto la mia condizione di misuratore di incommensurabili, non posso essere di meno di quel che sono, non potrò mai essere di più.
E poi, in quello spazio, in quella stanza che contiene occhi e amore, mi sembra chiaro di avere messo il mondo intero. Di averlo catturato e trasformato mille volte e mille, ad ogni battito di ciglia, ad ogni battito di cuore. E di non avere ancora colto e ricompreso nessun vero segreto, nessun inganno (e ce ne sono mille e mille a quanto pare).
Eppure nella vita ci si incontra.
Un giorno ho conosciuto Chiara. Nata sotto le montagne quasi cent’anni fa, a questo punto.
Quel poco che scrivo su di lei è un altro segno di come mi affatico a misurare ciò che non può dirsi con parole semplici e qui faccio appello a quella professione inconcludente che mi sono dato questa volta: di tracciatore di distanze che riuniscono, di traduttore di idiomi incomprensibili, di ambasciatore di profezie che salvano.
Non posso deporre da qualche parte in un cassetto la mia condizione di misuratore di incommensurabili.
Chiara e le sue amiche, Chiara e la sua chiamata, Chiara e le sue prime passeggiate da una vetta a un’altra. Chiara e i paradisi, Chiara e la passione, Chiara e tutti i suoi figli ai quattro angoli del mondo. Chiara e la certezza di resurrezione, Chiara ed il silenzio. Chiara e il verbo di Maria. Chiara e i poveri. Chiara e la Sapienza.
Ho sempre pensato di essere nato perché un giorno qualcuno come lei ha detto il proprio sì alla vita, ha trainato con leggerezza di una stella la propria scia di fuoco per i sentieri del cielo. Che fosse il cielo di un giorno trasparente o quello di una notte profonda dell’anima, poco importa.
Anzi meglio mi vien da dire: la stella ama la notte, ama rischiare l’oscurità di un abbandono. Preferisce uno sfondo di tenebra per sfolgorare.
Chiara ha voluto vivere così e ci ha invitato a scivolare insieme, tutti, lungo traccianti siderali che avvolgono in un abbraccio l’universo.
Oltre le barriere del mondo piccolo dove siam cacciati, oltre i confini inventati di questa terra feudale che ci ha inghiottiti, oltre le contee delle nostre fedi, oltre i regni delle nostre idee, territori dai cento castelli che non difendono nulla, che non difendono più nemmeno la nostra smarrita coscienza di essere uomini.
Chiara ci ha lasciato un segno addosso, il segno di una croce che zampilla gioia, che riepiloga tutte le misure, che ricompone e cuce sopra i risvolti di ogni nostro passo il senso di un percorso luminoso, anche nel silenzio.
Un giorno freddo di dicembre, alla vigilia dell’Immacolata, Chiara prese la sua vita e, mentre oltrepassava un ponte sospeso sopra una vertigine infinita, decise di scagliarla con tutte le sue forze dentro la storia d’amore più grande che avesse mai sentito raccontare: quella di un Dio fatto bambino.
Torno adesso a misurare le distanze tra ciò che osservo attorno a me e quello che da me trabocca, scegliendo come unità di misurazione l’immagine di quello slancio.
Ma quanti anni luce dovrò vivere per rendermi veramente conto dello straordinario incontro che mi è toccato fare conoscendo Chiara e il suo, mio ideale?
Forse solo mi rimane da considerare lo spessore del silenzio che dentro e fuori da me stesso ogni giorno avvolge quello che sarebbe da gridare ai quattro venti. Sì, perché il silenzio torna utile talvolta a protezione e, solitamente, non appare il caso di parlare di un amore come questo.
Ed è un silenzio, quello che protegge, che ha spessore facile all’abbraccio. Che non respinge, che non urta, che non nasconde, ma che prepara spazio. È quel silenzio, insomma, in cui mi accorgo possa riposare trepidante la distanza tra il centro del mio sguardo e quello del mio cuore.
Di ogni sguardo e di ogni cuore.