Intervista a Asunción Pérez, Choni
Primavera 2015. Sono seduta con Asunción Pérez “Choni” in prima fila davanti al tablao di Casa de la Memoria dove tante volte si esibisce. Abbiamo un’ora e mezza di tempo prima che lei debba andare a prepararsi per l’esibizione di questa sera.
Choni mi avverte subito con un bel sorriso: “Guarda che io parlo tanto …”
“Meglio!” – le dico subito io.
(Foto di Paco Sánchez e di José Luis Navarro)
Un teatro o una peña?
Dove ti senti più a tuo agio, o meglio, dove puoi esprimere meglio la tua arte?
L’ interpretazione e le sensazioni sono le stesse o cambia qualcosa se ci si esibisce davanti a dieci persone o cinquecento?
Certamente cambia.
Forse le emozioni sono le stesse perché si tratta sempre di trasmettere quello che hai dentro, però io quando sono in un teatro faccio un tipo di spettacolo e quando sono in una peña faccio un altro tipo di spettacolo.
Quando salgo sul palcoscenico di una peña flamenca, per le sue dimensioni, per l’acustica, per la vicinanza del pubblico, scelgo un tipo di flamenco più tradizionale, più vicino a quello che abbiamo in Casa de la Memoria per esempio, quello che alcune persone chiamerebbero più puro.
Quando vado in scena in un teatro, io che ho la fortuna di avere una compagnia, mi permetto il lusso di poter fare un altro tipo di follie, di fondermi con altre discipline come il teatro, la danza contemporanea, il mondo del circo, o anche il mondo del cabaret.
Ad esempio nell’ultimo spettacolo che ho fatto mi fondo con la danza contemporanea, e al poter costruire una scenografia, al poter mettere delle luci che ti nascondono, oppure no, posso giocare con altri tipi di storia che una peña non mi permetterebbe.
Parlami un po’ di questa cosa del circo, non lo sapevo.
C’è uno spettacolo che abbiamo fatto qui a Siviglia verso Natale che si chiama Malgama, mette insieme flamenco e circo. Ha funzionato benissimo per il teatro infantile. Ovviamente è uno spettacolo per tutte le età, ma è uno spettacolo molto visuale.
Per esempio in una peña questo non potrei farlo. C’è gente che preferisce la peña perché sei più nuda, scoperta, sei più tu, non c’è inganno lì. Non ci sono più additivi che il puro cante, il puro baile, e il puro toque.
Nel teatro sì, ti puoi permettere di continuare a decorarlo con qualcosa, quindi dal mio punto di vista è più arricchente. C’è gente che preferisce la peña perché sei più nuda, scoperta, sei più tu, non c’è inganno lì. Non ci sono più additivi che il puro cante, il puro baile, e il puro toque.
Per quanto riguarda le sensazioni e le emozioni chiaramente dipende da cosa stai facendo.
Io sono una persona molto teatrale mentre ballo, quindi non ballo nello stesso modo per seguiriya che per alegrías, ed evidentemente l’espressione in una peña si vede molto di più, lo spettatore sta più vicino a te. In un teatro ci vuole molto di più per arrivare fino allo spettatore più lontano. Devi esagerare di più i movimenti.
Faustino Núñez in una recente conferenza a Cordoba ha sottolineato l’importanza degli appassionati di flamenco stranieri, di quelli che non lo hanno nel sangue, dei turisti, per la sopravvivenza del flamenco e la sua diffusione.
Qual’é la tua opinione a tal proposito e come vedi l’interesse dello straniero?
Ha perfettamente ragione.
Credo che ora come ora, nel momento culturale che stiamo vivendo in Spagna, se non fosse per lo straniero non mangeremmo, credo tanto per quanto riguarda le lezioni quanto per la gente che va a teatro e agli spettacoli.
La maggior parte della gente è quasi sempre straniera, e a parte ciò io sento che c’è più passione fuori che dentro, è curioso. Per me è degno di ammirazione che una persona di fuori lasci i suoi studi, la sua famiglia, il suo lavoro, per venire qui ad imparare qualcosa e ad impararlo dalla radice, mettendosi nella cultura direttamente.
Di fatto abbiamo in Spagna grandi persone come Chloé Brûlé, che è canadese, e tuttavia ora è una delle bailaoras di più successo, infatti è nominata ai premi MAX in Spagna. Lei oltre a bailaora è anche ballerina perché viene dal classico, ma ora sta facendo flamenco.
Israel Galván ha montato uno spettacolo dove aveva una statunitense, una ragazza di colore che ricordo che fu molto impattante perché era una delle prime che si vedevano ballare flamenco. Credo si chiamava Nicole. Ma è molto tempo che non so nulla di lei.
Il punto è che per lei dev’ essere difficile, perché se per noi è dura, beh, per loro è ancora più complicato.
Però sento che la passione è molto importante e che ora te lo dico, credo che los flamencos non staremmo mangiando perché alle lezioni, per lo meno a Siviglia, di flamenco, la maggior parte della gente è straniera.
L’altro giorno precisamente sono andata a una lezione che stava dando una collega e stavamo parlando proprio di questo, dicevamo, “Accipicchia, dove sono le spagnole? Che succede? Non sappiamo se dipende dal professore. Forse viene molta gente di fuori e il livello non è così alto, quindi forse si abbassano i livelli e la gente di qui non si segna alle lezioni, non so.
O forse non hanno la stessa passione.
Ma è chiaro che se tu vai in un paese straniero con l’intenzione di studiare flamenco, evidentemente lo stai studiando al cento per cento. Chi vive qui magari ha la sua famiglia, ha altre inquietudini…
Io credo che sia importante l’apporto che sta facendo “il turista”.
Qual è il palo che più ti rappresenta e perché, e quale invece quello che ti risulta più estraneo, se ce n’è uno.
Bella domanda, però è curioso che non saprei se sono io la persona che ti deve rispondere o chi mi vede da fuori!
Perché una cosa è quello che sento io, un’altra cosa è come mi si vede, credo.
A me piace dare a ogni palo di flamenco il suo carattere, la sua interpretazione.
Se sto ballando per seguiriya non gli sto dando la stessa intenzione che se ballo per alegrías.
Io sono una persona molto espressiva, nella vita reale anche, e mi piace molto l’umore, quindi la gente in genere dice che mi vengono molto bene i palos tipo guajiras che è più birbona e più sensuale, molto più femminile, o las alegrías, che hanno una malizia più di gioco con il pubblico; tuttavia mi piace anche ballare per seguiriya con palillos, con una bata de cola, che è una cosa più seria, non saprei. Io mi sento a mio agio ballando per guajiras con un abanico e mi sento a mio agio ballando per seguiriyas con palillos e bata de cola.
Ma dipende anche dal giorno.
Ci sono giorni in cui mi va di ballare per un palo più allegro o più triste. Qui un giorno mi sono messa a recitare per esempio, dentro la alegría, perché mi piace anche questo tipo di improvvisazione che ha il flamenco.
Forse quello che a me risulta più difficile è ballare per soleá, lo faccio di meno. Soleá por bulerías sì, ma soleá soleá è un palo più difficile per me, perché richiede un grado che ho lavorato di meno.
Tuttavia spesso mi hanno detto “balli molto bene per soleá!”, ma è raro, lo faccio poco perché mi sento più a mio agio per alegrías, che ha un punto più teatrale, forse. Ha più gioco con il pubblico e non richiede cosi tanta concentrazione.
Però è vero che se un giorno hai una pena profonda perché, che ne so, sei venuta a sapere qualcosa che ti ha fatto impazzire, è vero che dici “beh, oggi ballo per soleá” perché voglio far uscire questa tristezza che ho dentro.
Anche il taranto mi piace ballare. Infatti qui in Casa de la Memoria lo faccio molto, perché è molto “della terra”, e ha anche una parte per tango, quando finisce. Il mio baile è molto di fianchi, di spalle, di braccia, ho la scuola sivigliana, quindi è chiaro che per tango mi piace molto ballare.
Ultimamente sto facendo palos differenti come la farruca. La ballo in pantaloni, e mi va a genio un bel po’. Poi la zambra. La ballo scalza, con crotalos e i capelli sciolti, sebbene qui nel tablao non la faccio in genere.
Essere maestra e artista. In quale momento senti che stai dando di più all’altro, pubblico o alunno, durante una lezione o un’esibizione?
Credo in tutti e due i casi. Dipende anche dal giorno, ovviamente, ma io vengo da una famiglia che tutta quanta è di maestri di scuola media, mio padre è maestro in una scuola, mio fratello è fisico elettronico e dà lezioni all’università, mia madre è matematica, quindi ho imparato una buona tecnica di insegnamento.
Mi piace molto dare lezioni, mi diverto davvero tanto.
Quando insegno mi piace giocare come se i miei alunni fossero il mio corpo di ballo. Quindi posso permettermi il lusso di montare qualche piccola coreografia e vederla da fuori.
Adoro dare lezioni di tecnica, perché mi permette un po’ di fare ciò che voglio ogni giorno. Oggi faccio i piedi, oggi faccio giros, oggi faccio la testa, oggi più le braccia…
Ma montare una coreografia mi costa di più, perché non si è ispirati tutti i giorni. Quindi ci sono volte in cui ti escono fuori dieci passi e altri giorni in cui non te ne esce nessuno.
Ciò nonostante la gente sta lì, tu sei cosciente del fatto che sta pagando per imparare.
A me piace prepararmi le lezioni ma è vero che non sempre hai abbastanza tempo per farlo.
Inoltre è importante calcare il palcoscenico perché in realtà è da lì che ti alimenti.
Io sento che se non calcassi un palcoscenico e non ballassi da sola allora non avrei nulla da insegnare.
Immagino che, delle persone che si iscrivono ai corsi di flamenco, la maggior parte voglia poi calcare un palcoscenico, o dare lezioni nel suo paese, immagino che siano poche le persone che lo fanno solo come hobby, come se fosse andare in palestra, credo.
O quantomeno i miei alunni appartengono a questa categoria.
Comunque è certo che non tutti i bailaor/a sono maestri/e, né tutti i maestri/e sono bravi bailaor/a.
Alcuni sono bravi in tutti e due, altri no.
Io avevo un maestro che era più maestro che bailaor. Magari lo vedevi su un palco e non ti sembrava dei più potenti, tuttavia come maestro era impressionante.
Io quando insegno non dico “è così” o “non è così” unilateralmente, mi piace dire qual è la mia visione delle cose, ma ciò non vuol dire che sia l’unica. Credo che questo alla gente piaccia. Dovrebbero sentirsi un po’ liberi. Ci sono dei passi tecnici che bisogna farli in un modo, ma come consiglio. Magari viene un altro professore e ti dice il contrario. Ci sono molti modi di capire il baile.
Il momento più importante e quello che più ti ha emozionato della tua carriera.
Ce ne sono vari, però forse quello che sento più recente e con più emozione è il giorno in cui ho calcato il Lope de Vega con la mia compagnia.
Ricordo che ci sono stata due giorni, il 27 e il 28 maggio 2011 con lo spettacolo “La Gloria de mi Mare” (debuttato nel Teatro Central nella Bienal de Flamenco del 2010). Si è riempito il Lope de Vega che ha 750 posti, ed è uno dei teatri più importanti di Siviglia.
Me la sono goduta come non mai e mi ricordo che il secondo giorno in concreto, quando gia’ era arrivato il momento dei saluti, il tecnico delle luci mi accese tutta la platea e vidi tutto il teatro pieno, in piedi, applaudendomi, e non ho potuto fare a meno di riempirmi di lacrime, ma di emozione.
Io credo che lì si è compiuto uno dei miei sogni più belli.
È stato importante anche il giorno in cui sono salita sul Lope de Vega quando mi consegnarono il Giraldillo con lo spettacolo “Tejidos al Tiempo”, nella Bienal del 2008. In fin dei conti i premi sono dei riconoscimenti alla tua carriera e ovviamente apportano tanto. Mi aiutò a darmi una spinta.
I tuoi maestri, coloro che ti hanno insegnato qualcosa che non dimenticherai mai.
Molti. Inoltre è curioso che ho imparato di più dai morti che dai vivi.
Per la bata de cola, la persona dalla quale ho imparato di più è Milagros Menjíbar.
Poi Eva Yerbabuena, con la quale ho passato 4 – 5 anni nella sua compagnia, e nel mio baile credo che ci siano molte cose di lei.
Tuttavia ho preso molto dagli uomini. E tra gli uomini, nonostante io sia molto femminile quando ballo, ho notato molto Mario Maya, ma non ho fatto molte lezioni con lui. Poi Antonio Gades, pur non avendo avuto la fortuna di prendere lezioni da Antonio Gades.
Ho imparato molto anche vedendo video. La madre di Belén Maya, Carmen Mora, Manuela Vargas… Da ognuno prendo qualcosa.
Io sono di scuola sivigliana, per esempio per me il referente è più Eva Yerbabuena che Manuela Carrasco .
Sebbene capisco che Manuela Carrasco è anche maestra e maestra di maestre, ma non mi identifico tanto con la sua forma di baile, mi identifico di più con una Eva Yerbabuena.
Come referente quando ballo por farruca, penso ad Antonio Gades, o a Antonio El Bailarín, a Rafael de Cordoba. È proprio curioso, noto e imparo molto dagli uomini. Mario Maya soprattutto, con i fianchi che aveva.
Poi Carmen Amaya, ovviamente, Matilde Coral…
Quali sono gli artisti che più ti piacciono della scena attuale del flamenco e con i quali ti piace o piacerebbe lavorare?
Beh, una te l’ho gia’ nominata, Eva Yerbabuena.
Con Israel Galván, mi piacerebbe, per me è il numero uno. Di uomo lui e di donna Rocío Molina. È la più potente, e si vede, sta vincendo tutti i premi. Sono i due più grandi che ci sono adesso, dal mio punto di vista.
Un altro che ammiro molto è Andrés Marin. Sono quasi sempre uomini, come vedi. Penso che così ho meno concorrenza. (ride)
Poi ci sono anche artisti giovani che stanno andando molto bene come Patricia Guerrero.
Le emozioni che provi proprio prima di andare in scena e quelle che sorgono durante lo spettacolo e alla fine, quando tutto finisce.
Appena prima ti entrano delle dita nello stomaco, un nervosismo…
È la reazione al pensare “ok, devo essere all’altezza della gente che sta li fuori”. Quindi hai sempre un formicolio nello stomaco. Emozionalmente non penso a nulla, semplicemente respiro molto. È curioso che prima di uscire sul palcoscenico sbadiglio molto. A quanto pare questo ossigena il corpo, non so, ma mi viene molta voglia di fare certi sbadigli che sembra che ho sonno mentre invece è come se si stesse attivando il metabolismo.
Durante, dipende se il baile è molto trito o no.
È vero che la mente viaggia. Viaggia per immagini. Ci sono volte in cui ho in mente immagini di bailaores y bailaoras, quindi come se ti stessi vedendo nello specchio, come provando ad imitare quell’immagine di bailaora che hai nella testa in quel momento, o ci sono delle volte in cui semplicemente il cantaor ti trasporta verso una emozione che tu hai, di tristezza, di allegria.
O ci sono volte in cui stai pensando a cosa ti vai a mangiare dopo perché hai molta fame! (ride)
La mente viaggia molto. Ciò che senti dopo, per me è diverso anche se stai in un tablao o in uno spettacolo.
Un paio di settimane fa ho presentato un nuovo spettacolo nel Teatro Principal di Donostia, e renditi conto, quando è finito sono rimasta vuota. Erano stati due mesi tanto intensi, provando, ballando, che quando è finito tutto…Io non ho mai avuto un figlio, ma ho avuto questa sensazione, di aver partorito. Un vuoto. E niente, mi sono appigliata alla cantaora e giù lacrime. Io non ho mai avuto un figlio, ma ho avuto questa sensazione, di aver partorito. Un vuoto. E niente, mi sono appigliata alla cantaora e giù lacrime.
Rimani un paio di giorni in uno stato di “e ora che faccio?”.
Certo, in un tablao è differente quando esci. È ciò che fai abitualmente e basta. Finisci e pensi che te ne vai a casa, vai a farti una doccia, ti vai a rilassare, però certo, quando c’è uno spettacolo in un teatro con la gente che ti ha lasciato questa energia… Però in qualsiasi caso io esco sempre con l’adrenalina a mille, ci vuole un po’ prima che mi rilassi. È come una droga suppongo.
Qual è secondo te il modo migliore per avvicinarsi al mondo del flamenco partendo da zero? Teoria, pratica o…?
Tutto.
Io ammetto che la teoria è l’ultima cosa che ho fatto. La prima cosa che ho fatto è stata la pratica, perché da piccola avevo chiaro in mente che volevo diventare una bailaora, e dopo, una volta che entri in questo mondo, ti rendi conto del fatto che vuoi sapere da dove viene, perché il compás, perché il toque della chitarra si fa così, perché i differenti stili di cante…
Dovrebbe essere tutto insieme, ma dato che io l’ho fatto da quando ero piccolina, dipende dall’eta’ in cui cominci, ci sono volte in cui la teoria è un po’ noiosa e la pratica è più bella, soprattutto se quello che vuoi è essere interprete.
Sono stata a un congresso di flamenco dove ognuno esponeva la sua tesi, la sua esperienza, e ce n’erano alcune molto noiose.
È importante per la teoria vedere molto. La teoria per me non è sapere la vita di Vicente Escudero, in che anno è nato e in che anno è morto, ma sapere il concetto di baile che aveva, perché lo aveva in questo modo, che è sempre relazionato alla società in cui viviamo.
Non possiamo certamente fare lo stesso flamenco che faceva ad esempio la stessa Matilde Coral.
Ora con i computer hai la possibilita’ di vedere quello che vuoi. Anticamente la gente si nutriva di ciò che si metteva su durante le feste.
Per me il concetto di teoria è studiare seduti guardando il computer e spulciando visualmente com’è il concetto di baile che hanno altre persone.
Quindi io penso entrambe le cose.
La città che rappresenta la tua capitale del flamenco.
Hombre, Siviglia, indiscutibilmente!
Tradizione e modernità, dove ti collochi tra questi due poli, cosa pensi della scena attuale e cosa pensi degli “esperimenti”, della fusione di stili? Come vedi la presenza di altre musiche nel flamenco?
Stai parlando con una persona alla quale piacciono le mescolanze. Mi piace fondermi con altre discipline.
Di per sé la parola flamenco viene da mescolanza, degli arabi, quando stavano qui, con i neri. Già viene da una mescolanza in fin dei conti, pertanto è contraddittorio impegnarsi affinché il flamenco sia qualcosa di statico. Io non la vedo così. Indubbiamente.
Fondermi con altre discipline, o che si fonda la gente, mi piace, perché credo che apporti. Evidentemente con un rispetto. Bisogna avere come base che lì c’è un’eredità che bisogna provare a mantenere. Innovare per innovare non mi piace. Mi metto a ballare con delle corna in testa perché nessuno l’ha fatto? No.
Ma se forse quello che devi fare è fare una rappresentazione di un toro …
Dipende da cosa tu voglia raccontare, da cosa tu voglia raggiungere o se vuoi emozionare, mettere paura, o far ridere, o far piangere, il flamenco non smette di essere un’arte.
Quando metto su uno spettacolo dico bene, cosa voglio raccontare? Nella pelle di chi mi voglio mettere? O no, o semplicemente vado a ballare e basta, perché anche questa è un’opzione.
Altre discipline credo che vadano molto avanti rispetto al flamenco in quanto a messa in scena, nel modo di raccontare le cose, tanto nelle luci quanto nella scenografia. Per esempio per me il teatro e la danza contemporanea, nei concetti di spettacolo che hanno, vanno molto avanti rispetto a ciò che esiste nel mondo del flamenco.
Infatti al giorno d’oggi ci sono i più avanguardisti, Israel Galván e Rocío Molina, che sono i numeri uno del flamenco e tuttavia si sono messi nella pelle di altre discipline come la danza contemporanea, e Israel Galván si sta fondendo con la danza hindu, perché ti rendi conto che ha degli elementi di linguaggio in comune.
Credo che ci sia più unione di tutte le arti di quel che sembra.
Per esempio, in Malgama, il flamenco è sempre flamenco, ma che succede se i pois del mio vestito si convertono in palline da giocoliere?
Trovo che questo sia magico, quindi, perché non farlo, se si fa con rispetto?
Tutto va bene, purché abbia un perché. Farlo per farlo no.
Io credo che come spettatore quando entri in una sala davanti ad un artista devi entrare pulito e dire “dai, vediamo cosa mi dà”. Vediamo che sensazioni mi farà sentire. Se le sensazioni che mi fa sentire sono sgradevoli beh, sono sgradevoli, già ti ha fatto sentire qualcosa!
Preferisco questo all’indifferenza.
La difficoltà più grande del percorso che hai fatto fino ad ora.
Ogni volta che entro in un “terreno” differente. È come un abisso, come un precipizio che tu dici “Qui non ho sotto controllo questa cosa”, e certo, l’ignoto spaventa.
Ma d’altra parte è ciò che mi piace. Mi interessa invece imparare nuovi codici e altri linguaggi e includerli nel flamenco o in ciò che conosco.
Qual è il tuo sogno più grande? Hai qualche progetto ancora in sospeso?
Calcare il teatro Maestranza di Siviglia!
Una persona non conosce nulla del flamenco. Quale disco gli presteresti per presentarglielo?
Gli darei un disco di Mayte Martín. Non so se il suo primo di boleros. O Mayte o Miguel Poveda, ma penso più uno di Mayte. Gli darei quello di Mayte Martín dove c’è il Ten Cuidao… Sì, “Querencia”, di Mayte Martín.
Sei laureata in informatica presso l’Università di Siviglia. Ci puoi parlare un po’ della tua formazione e delle tue decisioni nel momento in cui hai deciso di studiare informatica all’università e di essere una bailaora?
Inoltre con la crisi, i tagli alla cultura, che consiglieresti ai giovani aspiranti artisti? Immergersi solamente nell’arte, nonostante le difficoltà, o dare spazio anche a un’ alternativa, dividendo il tempo tra la formazione artistica e una carriera universitaria?
Io come ti ho detto prima vengo da una famiglia di maestri. La mia famiglia è extremeña ma sono venuti a Siviglia per far studiare i miei fratelli.
Sono la più piccola di una casa dove c’era passione per il flamenco ma nessuno ci si dedicava veramente.
E sebbene io avessi molto chiaro fin da piccola che volevo essere bailaora, a casa mia come sempre mi è stato detto che “prima gli studi e poi il baile”.
Quindi il baile era considerato sempre come un hobby.
A parte tutto ero una brava studentessa. La scuola media molto bene, il liceo molto bene, e quando arrivò il momento di entrare all’università, io in realtà non mi sarei iscritta.
Perché inoltre in quella epoca si formò una compagnia a Siviglia, quella di Matilde Coral e Juan Morilla, ci stava Rafael Campallo anche, Israel Galván, tutti quelli che oggi sono grandi figure. Io stavo per entrare in questa compagnia e lo ricordo perfettamente, perché papà disse “se sei bailaora avrai tempo, ma prima gli studi!”.
Non me ne pento, ovviamente, perché mi ha dato una cultura, in un altro modo.
Quindi mi ricordo che non sapevo cosa studiare, non sapevo se fare insegnamento, che era un po’ complementario con il lavoro …
Io sono andata all’università per questo, per avere un’alternativa nel caso in cui il baile non avesse funzionato o non avessi avuto fortuna, perché realmente io non venivo da una famiglia di artisti e non avrei avuto nessuno che mi avrebbe appoggiato in nulla, quindi ciò che avrei cominciato a fare sarebbe stato solo frutto del mio lavoro.
Mio fratello era più grande e a casa mia gli si dava attenzione, si prendeva sul serio ciò che diceva, e mi disse che l’informatica era quella che nel futuro avrebbe dato più uscite professionali. Quindi mi consigliò di fare informatica, che inoltre era qualcosa che mi sarebbe venuto bene, ed è vero, non me ne pento.
Però è arrivato un momento in cui certo, l’informatica è qualcosa di vivo anche, ed evolve, quindi o mi dedicavo al baile o all’informatica, perché non potevo più conciliare più cose.
Io ho portato avanti entrambe parallelamente fino ad un certo punto, perché anche il baile, se non lavori un numero di ore al giorno, il tuo corpo va perdendo fisico, tecnica.
Quindi credo che mi sono lasciata andare un po’ dalla circostanza, della casualità che mi è cominciato ad arrivare lavoro con il baile, mi hanno cominciato a chiamare per ballare con compagnie, ho cominciato a vedere che guadagnavo, che era un lavoro, i miei genitori vedevano che io facevo le mie lezioni e via dicendo.
Potevo mantenermi di questo e quindi è arrivato un momento, quando ho finito la carriera universitaria, che ho detto guarda, posso proseguire con la magistrale ma non lo faccio.
Credo che la vita mi ha portato a questo. Ho conosciuto Raul Cantizano, un chitarrista che lavora anche lui qui in Casa de la Memoria e lavora con la mia compagnia.
Ho cominciato a conoscere gente del mondo del circo, che sono quelli con cui ho fatto lo spettacolo Malgama. Ho scoperto che c’era una porticina che potevo aprire nel mondo del flamenco, tra milioni di bailaores e di bailaoras…
Tejidos al Tiempo è il mio primo spettacolo e da lì ho cominciato come compagnia da sola, già come Choni Cia Flamenca.
Poi con l’arrivo dei premi mi sono detta “Uh, Choni, ciò che stai facendo a quanto pare è un cammino che ti sta facendo apprezzare e non sei matta!”, quindi ho deciso di continuare l’andatura.
Ricordo che quando ho messo su questo spettacolo mi dicevo bene, ora invece di comprarmi una macchina monto uno spettacolo e investo nel mio lavoro.
Se mi riesce bene, bene. Se non mi riesce bene beh, è apprendistato che guadagno e basta.
È investire in qualcosa, sai? Ci sono volte in cui ti esce bene e volte in cui ti esce male.
Io a chi mi chiedesse non gli direi di non studiare. Il fatto è che è qualcosa di personale. È vero che se qualcosa ti piace molto, molto, molto, beh, sarebbe una stupidaggine.
Il consiglio è che la gente faccia ciò che voglia, ma ciò che la faccia felice, è chiaro. Deve fare ciò che la rende felice.
Che questa epoca è dura è chiaro, ma con costanza e con lavoro alla fine prima o poi la gente ce la fa. E se sei sincero con te stesso e sei un buon compagno, non provi a sgomitare nessuno giocando sporco, non fai nessuna carognata, alla fine la gente ti vuole bene e ti supporta. E se sei sincero con te stesso e sei un buon compagno, non provi a sgomitare nessuno giocando sporco, non fai nessuna carognata, alla fine la gente ti vuole bene e ti supporta.
Io credo che a Siviglia se chiedi a qualcuno “Che ne pensi di Choni?” magari ti possono dire che non gli piaccio quando ballo, però sicuramente dicono che sono una buona compagna e che non ho mai smesso di lottare per ciò che mi piace.
Senza disprezzare il lavoro degli altri compagni, senza calpestare nessuno per poi risaltare.
È dura ma gratificante.
Inoltre mi piace essere autonoma, organizzo il mio lavoro, il mio tempo libero.
È meraviglioso.
Grazie a Choni per questa intervista e per la sua simpatia!
Non perdetevi l’assaggio del suo baile che vi lascio qui sotto.